venerdì 13 dicembre 2013

Tra vecchio e nuovo




Da un'intervista - pubblicata da Repubblica - ad Andrea Zunino, uno dei leader del movimento dei forconi, apprendiamo, tra le altre amenità, che il modello politico a cui in Italia si dovrebbe guardare è il premier ungherese Viktor Orbàn, che un ristretto gruppo di banchieri ebrei tiene tutto il mondo alla catena e che Hitler, che era “probabilmente pazzo”, ha reagito con l'antisemitismo per vendetta nei confronti di finanziatori americani che gli avevano voltato le spalle. Il tutto condito dalla specialità della casa: i politici sono tutti uguali, le camere devono essere sciolte e il governo si deve dimettere per lasciare il posto a un esecutivo di “solidarietà”, formato da giuristi e costituzionalisti.
Ora, non credo di andare sotto la taccia di allarmista se dico che trovo considerazioni di questo tipo oltremodo preoccupanti. La prima parola che mi è venuta in mente è stata “deliranti”. Ma mi sono corretto. Il delirio è uno stato allucinatorio e confusionale, nel quale il giudizio sulla realtà risulta alterato. In questo caso non siamo davanti a un pazzo psicotico: siamo davanti a un cittadino italiano che, seguito da molti altri, ritiene che la via d'uscita dalla crisi e dalle inefficienze di uno stato obiettivamente mal governato sia una svolta autoritaria e nazionalista, sollecitata da una protesta portata avanti con sistemi intimidatori, populisti e squadristi. Questo leggo in queste dichiarazioni e negli eventi di cronaca. E francamente provo una profonda inquietudine.

Beninteso, è del tutto contraria alle mie intenzioni la volontà di difendere l'operato di governi a volte deludenti e il più delle volte disastrosi, e, in generale, una classe dirigente incompetente, furbetta, affarista e quasi sempre interessata a difendere, con tutti i mezzi possibili, le proprie rendite di posizione. Ma sono anche convinto che non è giocando a freccette con le istituzioni del nostro paese che troveremo la soluzione. Né, tanto meno, la troveremo pensando che il nostro sistema sia organizzato in maniera dicotomica, con una netta e distinguibile linea di demarcazione tra la cosiddetta “società civile”, composta di nobili e magnanimi lavoratori sottopagati, e una nebulosa ed eterogenea “casta”, di cui conosciamo solo una caratteristica dirimente: “ruba”.
Ecco di fronte a semplificazioni di questo tipo mi vengono i brividi. Non solo perché le approssimazioni, se possono essere utili a scopo meramente didattico, quando vengono utilizzate in via assiomatica danno luogo a distorsioni del reale, così profonde da compromettere un intero sistema culturale e sociale; ma perché questi ragionamenti sono agli antipodi di quella che è la proposta politica nella quale credo fermamente e che cercherò di portare avanti in ogni occasione. Proposta che è poi, in una parola, quella della collettività, e cioè quella di una strategia volta a riconnettere i pezzi di un tessuto sociale disperso, per i danni causati da un sistema liberistico profondamente sperequativo e darwiniano, attraverso lo strumento della mobilitazione cognitiva. Solo con la partecipazione, declinata in tutti i suoi possibili sensi, dalla militanza in partiti al semplice atto di informarsi, passando per l'attivazione di strumenti volti alla socializzazione preliminare (e non a giochi fatti) e aperta di decisioni che spettano all'amministrazione, si può recuperare un corpo, nel quale il vuoto di rappresentanza o la rassegnazione del “meno peggio” non siano i caratteri distintivi. E i sentimenti di esclusione e inappartenenza siano marginalizzati il più possibile.
In un normale stato democratico nessuno deve sentirsi estraneo né al diritto di esprimere la propria opinione, nei limiti imposti dalla nostra Costituzione, e di proporre soluzioni che portino benefici alla comunità, né, però, al dovere di assumersi le responsabilità, sempre con gradazioni differenti, di eventuali fallimenti e scelte sbagliate. La nostra pagina nuova dovrebbe essere all'insegna di una grande presa d'atto: una gestione oligarchica della vita politica italiana è contraria a tutti i principi e le norme della vita sociale, ma così è anche quel sistema sottocutaneo e che, nondimeno, vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, che ha consentito che le cose prendessero questa piega. Un sistema costituito da corruzione, clientelismo, nepotismo, infiltrazioni mafiose, favori agli amici, corsie preferenziali, evasione fiscale. Tutto nel nome di un motto mai ammesso ma sempre evidente, auto-manifesto: se sono più furbo prevalgo. Se invertiamo i fattori e ammettiamo che l'essere parte di una comunità implica l'attenzione verso gli altri soggetti di questa stessa comunità e implica, altresì, che la buona politica nasca dal concentrare tutte le forze in un impegno di lettura critica del reale, forse abbiamo delle speranze.
Ecco perché mi spaventano tanto le prese di posizione di Zunino, ma con lui tanti altri che siedono anche in Parlamento: attraverso di esse filtra il messaggio contrario, e cioè che destabilizzando le istituzioni e invocando una rivoluzione in apparenza iconoclasta, che preveda la sostituzione indiscriminata degli interpreti, ma che in realtà lascia inalterati i meccanismi che hanno permesso a quegli interpreti di prosperare, si possa in qualche modo uscire magicamente dalla crisi. Non funziona così. Non andrà così. Vivremo ancora le stesse situazioni se utilizzeremo ancora questi strumenti di lettura della realtà. E assisteremo a giovani cinquantenni che, evidentemente presumendo di essere stati calati da Marte l'altro ieri, urleranno la propria frustrazione e il proprio bisogno di violenza repressa, al contempo autoassolvendosi, deresponsabilizzandosi. Magari dopo anni di disinteresse verso la società, la politica, la cultura.
Non stupisce che il passo successivo, già tentato, sia il rogo dei libri, l'annientamento degli strumenti di comprensione del reale.


Perché sarà anche vero che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Ma questa farsa mi sembra già fin troppo tragica. E non lo è da ieri.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il voto utile


È paradossale sentire appelli al voto utile da parte di chi ha avallato lo slogan più antiestetico, diseducativo e patetico che conosca. Mi riferisco naturalmente alla campagna elettorale per le elezioni del febbraio 2013, culminata con l'argomento che meglio rappresenta appieno il senso della povertà culturale della proposta politica: votateci perché gli altri sono peggio.
È paradossale, dicevo, sentire questi appelli. Un po' perché mi pare che la cosa assuma i tratti del patologico: ma, si sa, noi di sinistra, e in particolare noi del Pd, siamo straordinariamente capaci di interrogarci per decadi sui nostri sbagli, ripetendoli puntualmente e periodicamente. Un po' perché dovremmo finirla di propinare alle persone ricette meno che mediocri, facendo finta che non se ne possano trovare di migliori. E un po' perché chiamare di nuovo a raccolta le truppe contro un nemico comune, facendo finta che anche Civati giochi nella sua squadra, è, prima ancora che una scorrettezza, una mossa triste. Da basso impero. Di un impero basso da sempre.
Eh sì perché poi, stringi stringi, il problema è la credibilità. E se per anni hai predicato tutto il contrario di ciò che hai fatto, finisce che gli appelli al voto utile suonino come appelli al voto inutile, esattamente come i reiterati richiami a comportamenti responsabili paiono sempre più incitamenti a comportamenti scapestrati e criminali. Così l'impressione è che non resti altro che invocare un voto di sinistra, buono a sedare gli animi di quegli iscritti nostalgici del Pci, ma stancamente, come la ritualità consueta di chi ha vissuto di questi espedienti e continuerà a farlo, sfruttando le illusioni di una militanza troppo generosa, disposta a rinnovare l'utopia della svolta a sinistra con la dirigenza che nella storia della sinistra italiana ha più di tutte guardato (e non solo guardato) a destra. Evidentemente da queste parti strabismo e torcicollo non sono un problema.
Questa è la sinistra che ha problemi a convivere con Renzi, ma non ne ha neanche un po' a governare con Alfano, Formigoni e Giovanardi, non solo facendo finta di poter risolvere con costoro questioni quali, tanto per dire, la corruzione, la giustizia e i diritti civili, ma guardando a loro come novelli Pericle a cui consegnare il timone di una destra europeista, finalmente liberata da Berlusconi. Questa è la sinistra che, all'improvviso, dopo anni di vanagloriosa ostentazione di diversità rispetto agli altri, scopre che le primarie non sono più opportune perché, motivazione ufficiale, riducono a pura mercificazione elettorale e leaderistica ciò che dovrebbe essere un vero scontro sui contenuti. Forse il problema è un altro ed è che lo strumento delle primarie è stato utilizzato a uso e consumo di sempre più floridi e numerosi capibastone, capaci di premiare la fedeltà acritica e promuovere utili idioti. Ma, francamente, se un ricercatore scoprisse il vaccino contro l'Aids e poi usasse tutto il prototipo per farsi il bidet, dareste la colpa al vaccino o al ricercatore? E forse, perdonatemi se tocco un tasto dolente, per la prima volta il candidato più accreditato (e sponsorizzato) per la vittoria non è quello designato. Le primarie sono, per così dire, sfuggite di mano: vanno bene se acclamano con gioia e tripudio colui che la dirigenza ha indicato come il migliore e non se, al contrario, sulla base dei sondaggi e di abili trasformismi, portano da un'altra parte una buona fetta della dirigenza stessa. Forse il problema è a monte.
Questa è la sinistra che si appella, ancora, al voto utile. E, ancora, si atteggia a unica depositaria della verità storica, in quanto erede di una tradizione che le attribuisce i crismi dell'auctoritas. Una tradizione che, non gli altri, ma questa dirigenza ha gettato al vento, prendendo da essa solo ciò che era rigorosamente da scartare, come la disciplina di partito (senza un partito), i meccanismi cooptativi e l'élitarismo da egemonia culturale (senza l'egemonia culturale).

Domenica prossima andrò a votare Civati, anche contro questa logica arrogante e meschina. Ma soprattutto perché ritengo che il voto sia sempre utile quando nasce da una riflessione attenta e da un'analisi critica della realtà che ci circonda. E mi sentirò straordinariamente utile, perché contribuirò, nel mio piccolo, alla costruzione di un partito diverso da quello che abbiamo visto finora, un partito orientato davvero a sinistra, senza incrostazioni di potere, senza timidezza, senza ambiguità, senza fraintendimenti, senza paura di scontentare qualcuno (che non ci voterà mai, tra l'altro), senza subalternità. Un partito che finalmente affronti a muso duro la crisi democratica che ci investe in Italia e in Europa e che sappia trovare nuove strade per la rappresentanza, perché non esiste male peggiore per una democrazia che abbandonare altissime percentuali di elettori, lasciandoli in preda alla disperazione sociale e alla mancanza di punti di riferimento politici. E voterò Civati perché credo che il Civoti non sia solo un gioco di parole, ma una linea d'azione ben precisa, che fa della collettività e della mobilitazione cognitiva il proprio credo. Voterò Civati perché temi come l'ambiente, la cultura, il lavoro, l'istruzione e i diritti civili non possono essere affrontati né con superficialità né con l'ipocrisia di chi incarna la continuità con una classe dirigente disastrosa, che ha abbandonato gli elettori, per rinchiudersi nelle strategie di palazzo, tra le intercapedini della sussistenza e della rendita di posizione, impermeabile ai cambiamenti e al rinnovamento della società. Incapace di fare ciò un politico dovrebbe saper fare meglio: ascoltare.

Domenica andrò a votare Civati perché il ruolo della sinistra è quello di cambiare lo status quo e i rapporti di forza. Sarà un voto utile, perché so dove andrà a finire e cosa ne faremo. Siamo all'inizio di una lunga storia. Non finisce l'8. Inizia il 9. 

domenica 10 novembre 2013

Non prendiamocela con Renzi



Un ritornello gaiamente cantilenato e divulgato come la più inoppugnabile delle verità dice che il Pd è l'unico partito rimasto in Italia, plurale, vivo, intessuto di discussione libera e, in alcuni casi, eterodossa. Mettiamoci d'accordo però: se vogliamo usare questo spot come mero motto propagandistico, ci posso anche stare. Però si avvertano tutti i militanti e i simpatizzanti che solo di campagna pubblicitaria si tratta; non ci credano davvero. Perché purtroppo non è così. E non lo dico con leggerezza, né, tanto meno, con soddisfazione. Ma con profonda delusione e grave sconforto.
Lo stesso ritornello abusato di cui sopra impone un pensiero altrettanto distorto: con Renzi avremo un partito padronale, nel quale i militanti saranno pressoché ridotti al silenzio, svuotati delle loro funzioni di elaborazione politica e di influenza sulle decisioni della dirigenza. In tre parole, strumenti del leader. Scusatemi, signori, e perdonate il mio eccesso di sincerità e fors'anche di cinismo, ma questo processo, che si immagina come repentino e automatico dopo l'elezione di Renzi alla segreteria del Pd, è in corso da molti anni e ha individuato nella figura del sindaco di Firenze la propaggine più coerente e allineata.
Abbiamo stigmatizzato Renzi per le sue presunte simpatie destrorse e per il suo culto spinto della personalità, senza accorgerci che dentro il Pd le simpatie destrorse e il culto delle personalità sono prassi così ben attestate che neanche ci si fa più caso. In questo senso l'ascesa dell'ex Margherita non può che essere intesa come normale processo di derivazione deterministica. Non è stato Renzi a farsi propugnatore della bicamerale con il primo Berlusconi, non è stato Renzi a sostenere insieme a lui il governo Monti, non è stato Renzi a contribuire, grazie alle numerose assenze, all'approvazione dello scudo fiscale, non è stato Renzi in prima persona ad avallare queste nostre lodatissime larghe intese. Che sono strette, di orizzonte culturale e di prospettiva, ma lunghe, lunghissime. E, paradossalmente, vivono alla giornata. In tutte queste occasioni, e nelle mille altre che non ho citato, era presente, eccome, l'attuale e sempiterna dirigenza, di stampo quanto mai oligarchico, del Pd, che ha anche il coraggio di intestarsi battaglie culturali e di rinnovamento, una parte a spingere il carro del segretario in pectore e una parte a spingere quello di chi di questa dirigenza costituisce il rappresentante ultimo.
Caliamo la maschera, per cortesia. Renzi è il frutto di quel trentennio liberista e di quel ventennio berlusconiano che il maggior partito della sinistra italiana non solo non ha saputo contrastare, non costruendo mai un'alternativa credibile e allettante per i nostri concittadini, ma ha concretamente favorito nelle sue manifestazioni più becere. Diamo un'occhiata alle realtà locali: circoli ridotti al silenzio, abbandonati, senza un coordinamento politico, senza più neanche la capacità di elaborare critiche, proposte, visioni del mondo differenti da quelle che la dirigenza, da sempre, cala dall'alto. Quale grado di incidenza ha la politica dal basso? In che misura prende parte alle decisioni che si prendono, non dico a Roma, ma nelle province, nei comuni, nelle nostre federazioni? Quale grado di autonomia ha rispetto al volere del notabile di turno? La realtà è che, già da molti anni, la nostra dirigenza intende la militanza e i circoli solo come bassa manovalanza per le feste e come comitati di sostegno personalistico. In questo processo va avanti chi si è mostrato più fedele e meglio ha saputo canalizzare le forze delle persone, convincerle, nonostante le delusioni e le frustrazioni, che vale ancora la pena sforzarsi, rimetterci tempo e risorse economiche, per un ideale più alto. Che nel migliore dei casi corrisponde al mantenimento delle posizioni verticistiche dei dirigenti e dei feudatari a cui si risponde. Rapporti solo fiduciari, venati di cecità fideistica, acriticità, acquiescenza. Anche grazie a noi prosperano fallimenti e cattiva politica. E Renzi in tutto questo c'entra al contempo tantissimo e pochissimo. Renzi, per così dire, semplifica il processo e abbandona l'ottimismo di chi, come me e molti altri, ritiene che il partito debba essere un'altra cosa e debba essere un luogo in cui si mettono a confronto le competenze di tutti e si elabora, dal basso, una strategia per trovare le contromisure ai problemi che la società, specialmente quella attuale, individualistica come mai nella storia, ci pone di fronte. Riduce il partito a struttura al servizio suo. Ma non lo dice per primo. E il partito così com'è, da molti anni, è al servizio di molti. Molti che poi si scontrano tra di loro: per ragioni non certo nobili.
Rendiamocene conto e reagiamo. Perché nessuno ha la verità in tasca e men che meno coloro che ci governano. E perché contare, e non contarsi, è una precondizione per stare in una comunità, di qualunque natura essa sia. Figuriamoci se si tratta di un partito.

Non è Renzi che dobbiamo combattere, ma il Renzi che è dentro tutti noi. E c'è da molto tempo. Da molto prima di Renzi.  

martedì 29 ottobre 2013

Con soluzione di continuità



Che si vada nella direzione corretta lo dimostra la calcolata e deliberata indifferenza di Vendola. Civati ha individuato nella sinistra dispersa, delusa, derelitta e smarrita il proprio destinatario principale. Ha scelto di rappresentare una parte ben definita, chiaramente e senza ipocrisie: perché la politica è fatta di scelte ed è parziale, anche nell'inclusività. Se si sceglie un destinatario principale non è per sfavorire gli altri, ma perché si ritiene che, attraverso quella scelta, tutti possano trarre beneficio. Questione di gusti. Questione di convinzioni. Il problema è averne almeno una, ogni tanto.
Ebbene, tra chi ha deciso di non decidere, fingendo di parlare a chiunque, indipendentemente dai contenuti e dagli interessi, e riproponendo il cliché abusato del salvatore della patria, intriso di tinte messianiche e del culto dell'eroe, e tra chi ha deciso di proseguire sulla via della socialdemocrazia di facciata, con competenza anche reale, per l'amor del cielo, ma anche con un carico ingombrante e fallimentare di un'intera classe dirigente prevalentemente reduce dal Pci e che da quella tradizione ha volontariamente cacciato Marx e Gramsci, conservandoli in via residuale e a livello catacretico, per tenersi le strategie dirigiste e le pratiche cooptative, senza sintesi, senza discussione, senza elaborazione e senz'anima, ho scelto, con molti altri, di aderire a una terza via che si propone di far saltare i meccanismi fallimentari che ci hanno condotto nel ventennio berlusconiano e nel trentennio liberista. Una via che ritiene che l'avvitamento sul primo e sul secondo non possano costituire una via d'uscita rispetto alla crisi nazionale e globale. Una via che si prefissa come obiettivo il cambiamento radicale della classe dirigente attuale, non nel nome di un rinnovamento generazionale, ma nel nome di una rivoluzione culturale e di pensiero. Una via che ha definito le proprie linee programmatiche, e con esse le persone a cui si rivolge, e che stabilisce una volta per tutte che il ruolo ontologico della sinistra è quello di modificare i rapporti di potere e lo status quo, contro le sperequazioni e le ingiustizie sociali. Per il consolidamento dello stato delle cose esiste già una casa comoda comoda, con pareti solidissime e, coerentemente con la propria strategia in campo ambientale, con cemento armato un po' dappertutto: ha una collocazione chiarissima e un compito semplice e si chiama destra. E andrebbe lasciata agli altri.
Poi c'è la politica: derelitta, autoreferenziale, insufficiente, storicamente sconfitta, in crisi di identità e senza soluzioni. Proseguire sulla strada battuta o, persino peggio, elaborare strepitose palingenesi a braccetto con gli interpreti principali di una fase socio-culturale avvilente sotto tutti i punti di vista significa consegnare il paese ai nazionalismi, alla violenza e al terrorismo. Sta già succedendo e non è un processo destinato a esaurirsi senza una reale svolta storica. La soluzione non è assecondare ventate populistiche funzionali al consolidamento di altre rendite di posizione, ma avviare pratiche virtuose, attraverso il buon esempio sotto il profilo della moralità pubblica e attraverso il rafforzamento dei servizi fondamentali del cittadino. Non si fronteggia la riluttanza berlusconiana verso le forme della legalità e del rispetto delle norme del vivere collettivo con un partito schiacciato sullo stato e con i vecchi sistemi di corruzione e distribuzione di potere mirata e strumentale.


Al congresso voterò e sosterrò Civati. Non certo cadendo nella trappola del culto personalistico del risolutore provvidenziale né con l'illusione che le cose possano mutare drasticamente con un click, ma con lo spirito di chi inizia un progetto in un gruppo compatto, determinato e indipendente nel pensiero e nella libertà d'azione. Chi vorrà essere con me, con noi, in una battaglia durissima che non conoscerà esclusione di colpi, sarà il benvenuto. Insieme potremmo persino organizzare un altro congresso, in cui la natura del partito, la funzione delle larghe intese e le scelte di principio possano anche essere discusse sul serio e da tutte le parti in causa. Per ora, per questo congresso, se vi accontentate, ci siamo noi.  

venerdì 30 agosto 2013

Le parole che non ti ho detto (perché non potevo dirtele)


C'è un ritornello abusato; dice che la sinistra italiana non vince perché non sa comunicare. Quante altre elezioni si dovranno perdere prima di prendere coscienza del fatto che il problema non è formale ma strutturale e riguarda i contenuti? Per quanti esperti in comunicazione, marketing, promozione si possano assumere non se ne troverà uno in grado di elaborare una strategia vincente, nella totale assenza di idee, proposte e progetti, anche a breve termine, nella quale ci troviamo a destreggiarci. Le campagne elettorali disastrose cui abbiamo dovuto assistere non sono il frutto sfortunato di un'incapacità momentanea o di uno stato di stordimento generalizzato, ma il prodotto di una mancanza di dialettica interna e di elaborazione sintetica di una proposta convincente e univoca, non soggetta ad ambiguità ed equivoci. Il tentativo di far convivere due anime differenti e, per molti aspetti, alternative non ha dato i suoi frutti perché non poteva darli, nella sua natura tutta politicista e poco sincera. La rincorsa ai cosiddetti moderati ha sortito come unico risultato tangibile lo snaturamento della sinistra, incapace ormai di farsi interprete credibile delle necessità delle fasce sociali più deboli e di istanze di rinnovamento vero rispetto a un sistema economico e sociale fallimentare. In altre parole, abbiamo lasciato a casa Marx e Gramsci, se non attraverso un uso residuale e puntualmente distorto, e ci siamo tenuti l'apparato e i sistemi corazzati di conservazione del potere. Per la paura di alienarci il voto di chi avrebbe dovuto farci vincere e non ci ha mai fatto vincere, abbiamo rinunciato alla creazione di una piattaforma di discussione, in grado di avviare un percorso di crescita politica inclusivo e spregiudicato, mai visto prima. Che è rimasto solo sulla carta, nel bellissimo statuto che il Pd cita solo in prossimità di primarie che sempre di più assomigliano a un costumino stretto stretto, dal quale le pudenda inevitabilmente fuoriescono.
Inutile dire che non ha funzionato nulla. Il messaggio non è mai arrivato a nessuno perché le mille anime interne al Pd non hanno mai cercato un punto di convergenza o valori condivisi differenti dalla mera autoconservazione. Nessuno è mai riuscito a comprendere quale sia la posizione del Pd sul lavoro, sui diritti civili, sul ruolo delle forze armate, sull'etica pubblica, quali siano le proposte nel campo delle politiche ambientali, quale sia il piano industriale ritenuto indispensabile allo sviluppo del Paese, quale sia la forma di rappresentanza democratica indicata, quale sia il piano economico per uscire da una crisi, non solo economica ma culturale, che fa sentire in tutta la sua forza lacerante il bisogno di una sinistra seria e credibile. Il Pd e il centrosinistra non hanno saputo offrire una visione del mondo alternativa alla logica anti-statalista, cinica e individualista, che vede nelle regole imposte per il vivere comune un serio ostacolo all'autoaffermazione del sé e di cui Berlusconi è il campione.
Di questa condizione sono il riflesso tutte le decisioni e le non decisioni prese dall'attuale governo. Ultima, solo in ordine di tempo, quella sull'IMU, sconfitta del Pd su tutta la linea e simbolo di una subalternità che, francamente, non era difficile prevedere. Un prezzo che tutti noi pagheremo, attraverso una tassa diversa e più vessatoria nei confronti di chi meno può permetterselo e attraverso il previsto aumento dell'IVA, per bloccare il quale, ovviamente, mancano le coperture. Quando la negoziabilità di tutti i valori diventa ordinaria amministrazione, può succedere anche questo.
Non sorprende allora il linguaggio trito e acquitrinoso con il quale siamo costretti a fare i conti tutti i giorni. Mutamenti semantici, costrutti perifrastici, indeterminatezza lessicale sono lo specchio di una disfatta valoriale, prima ancora che politica. La cautela morbosa e la retorica speciosa sono le forme con le quali il Pd si manifesta e si rapporta con il mondo e con un elettorato che è distante anni-luce e al quale piacciono pochissimo i meccanismi abituali di sopravvivenza del politico doc. Questi elettori non dovrebbe esplodere in fragorose risate al sentire parole come “responsabilità”, “libertà”, “amore”, “crisi”. A questi elettori, potenziali, da riconquistare e da conservare, piacerebbe sentire parole vecchie ma vive quali “uguaglianza”, “diritti”, “progressività”, “giustizia”, “passione”, “redistribuzione”, “servizi”, “tutela”, “welfare”, “cultura”, “società”, “solidarietà”. A costoro piacerebbe che queste parole, nei rari casi in cui vengono usate, non fossero corpi morti e rispondessero a un significato.
Sono le parole che non ti ho detto. E quando te le ho dette non dicevano niente.

martedì 6 agosto 2013

Le nostre condanne

Vent'anni da un video all'altro. Vent'anni per tornare al simbolo di Forza Italia, mentre l'Italia boccheggia travolta dalla crisi economica, dalla pochezza culturale, dal malaffare, dal malcostume, dall'incoraggiamento all'illegalità e dal dileggio costante delle istituzioni. Berlusconi appare ringiovanito nell'aspetto ma appesantito nella fedina penale: la sentenza di condanna a quattro anni di reclusione passata in giudicato è un medaglietta al disonore che neanche i cavillatori professionisti alla sua corte sono riusciti a evitargli. A coronare l'evento si sprecano i titoli trionfalistici sui giornali stranieri, che prima e meglio di noi hanno compreso le qualità del nostro ex (ex?) Presidente del consiglio ma troppe volte l'hanno dato per morto, sbagliandosi di grosso.
La sentenza della Cassazione sancisce definitivamente l'ignominia di uno Stato il cui primo ministro per un totale di dieci lunghi anni, nonché attuale rappresentante al Senato, è un frodatore conclamato. Come se non bastasse, a ciò si aggiunge la tenuta dell'attuale governo, imposto, a detta dei sostenitori, dall'urgenza della crisi economica e dalla necessità di tenere a bada i mercati e, a detta dei più fantasiosi teorici, dalla strategia di uscita dal berlusconismo insieme a Berlusconi, con annesse scommesse sull'evoluzione politica della destra italiana in senso europeo.
E infatti, ampiamente prevedibili, arrivano le richieste di grazia al Presidente della Repubblica, le trattative per tramutare l'affaire in un novello caso Sallusti, le minacce alla tenuta del governo e i dubbi sulla decadenza del Cavaliere. C'è persino chi, sottraendosi alla retorica della pacificazione, parla di “guerra civile”. E poi, naturalmente, l'immancabile farsa dell'aizzatore di popoli che rassicura gli alleati e, al contempo, tra un piantino e un altro, spara cannonate sulla nostra democrazia e sulla nostra costituzione, parole eversive che dovrebbero inorridire chiunque non provi disprezzo per le istituzioni.
Ma queste sono cose che sapevamo già. Le sapevamo anche prima del 25 febbraio scorso e prima della formazione di questo governo. Le sapevamo anche quando coloro che andavano sbraitando che un governo con Brunetta e Cicchitto non era un'ipotesi contemplata si sono affannati a sperticarsi in articolate argomentazioni sul senso di responsabilità e sulle grandi prospettive che una grosse koalition avrebbe aperto, relegando temi quali i diritti civili e le misure sociali e per il lavoro al cosiddetto benaltrismo. Le sappiamo a maggior ragione adesso.
Berlusconi era politicamente morto nel novembre del 2011. Il Pd l'ha resuscitato con una campagna elettorale disastrosa prima e l'ha sostanzialmente rimesso al suo posto poi, ignorando il messaggio forte e chiaro che veniva dagli elettori, i quali avevano affermato chiaramente che tutto avrebbero voluto vedere fuorché una riedizione del governo Monti senza tecnici, riversando su Grillo aspettative che lo stesso Grillo, per scelta deliberata e non solo per incapacità, non ha mai voluto soddisfare. Chi ha lavorato da sempre alla soluzione delle larghe intese è stato così compensato degli sforzi che neanche ha dovuto fare. Che fosse un'idea stupida, nella sostanza noncurante, checché se ne dica, delle sorti del Paese e puramente conservativa, era chiaro a chiunque lo volesse vedere. È una soluzione che ha fatto male: al Pd, alla credibilità già ai minimi storici della nostra classe dirigente e delle nostre istituzioni, al Paese.
La sentenza, a cui evidentemente non solo Ghedini sperava di non arrivare mai, pone un problema politico di difficile gestione: forse non basteranno neanche più le clamorose arrampicate sugli specchi di cui le nostre oligarchie intellettuali ci hanno deliziato. O forse dovremmo semplicemente rassegnarci all'idea che farci dettare l'agenda di governo da un pregiudicato sia davvero il male minore. Chissà quali preoccupazioni avranno ora all'estero: la stabilità di un governo italiano capace di rinviare qualunque decisione alle calende greche o il fatto che un frodatore del fisco faccia la parte del leone al suo interno?
Ma, come si è già detto, queste cose le sapevamo già. E la realtà è che non è più credibile chi nel Pd, ora, prova a fare la voce grossa. Non siamo pronti al voto, non siamo pronti a porre condizioni, non siamo pronti ad affrontare le sfide che il Paese ci ha chiamato ad affrontare qualche mese fa. Figurarsi se siamo in grado di dire la verità e cioè che il governo Letta è il miglior salvacondotto possibile per Berlusconi e che la sentenza lo condanna dal punto di vista giudiziario ma non da quello politico. Per quello dovevano bastare le scorse elezioni, quando sei milioni di persone hanno deciso di votare qualcos'altro o di non votare proprio. E, tanto meno, siamo pronti a proporci come un'alternativa solida e affidabile ai partiti padronali e demagogici, continuamente puntati al ribasso culturale, civile, morale. Non siamo pronti a voltare pagina perché in troppi non lo vogliono fare e perché non se ne può neppure discutere. Non siamo disposti a modificare forme di rappresentanza che nessuno sente più come soddisfacenti, né siamo disposti a rimetterci in gioco accettando la sfida della partecipazione vera, attiva e consapevole.

Eppure sono necessità stringenti; sono, queste sì, urgenze reali. L'Italia e l'Europa hanno un bisogno inderogabile di discontinuità, di cambiamento e di sinistra. Ma davvero non hanno bisogno di questo Pd.   

mercoledì 17 luglio 2013

Quando migrano gli oranghi

C'è tantissima ipocrisia nell'atteggiamento di chi relega il tema dell'immigrazione a un ruolo di rincalzo nel contesto delle cosiddette priorità del nostro Paese, priorità peraltro, ammesso lo siano davvero, sempre rinviate alle calende greche. Dietro alla melmosità di queste argomentazioni si cela soltanto, neanche troppo latente, il desiderio di chiudere la porta prima ancora di mettere la mano sulla maniglia. È solo una questione di ostilità pregiudiziale, pigrizia di intelletto, malafede studiata.
In realtà il fenomeno migratorio è una componente ineludibile del mondo contemporaneo, oltre che una costante antropologica dell'essere umano, e va analizzato in tutti i suoi aspetti, possibilmente senza paraocchi ideologici. In primis l'aspetto economico: gli immigrati regolarmente residenti in Italia sono più di 5 milioni, producono il 12% del prodotto interno lordo nazionale e contribuiscono alle casse dell'INPS per circa 7.5 miliardi all'anno, quasi sempre non riscuotendo il dovuto per mancanza di accordi bilaterali tra i paesi o per assenza di requisiti in termini di anni di contributi. Per lo più lavorano in posizioni non ambite dagli Italiani e costituiscono un motore ineliminabile per la sopravvivenza delle nostre imprese. Gli imprenditori stranieri sono in costante aumento e si concentrano nel settore del commercio, della manifattura e dell'edilizia: in molti casi danno lavoro agli stessi Italiani. Se per un giorno soltanto tutti i lavoratori immigrati smettessero di lavorare, il paese rimarrebbe bloccato con conseguenze inimmaginabili. Dal punto di vista demografico l'immigrazione rappresenta una vera e propria ancora di salvataggio, poiché va a supplire alla scarsa natalità italiana, producendo linfa vitale e ricambio generazionale. Certo, ciò farà storcere il naso ai puristi della razza italica, o padana, o ariana, ma tant'è. Sul piano culturale i flussi migratori significano nuove possibilità di mettersi in gioco, significano confronto con l'alterità e scoperta della propria identità, prima ancora di quella altrui. La società interculturale cui dobbiamo andare incontro è prima di tutto una sfida rispettosa e stimolante: non comporta alcuna perdita sul piano identitario, ma acquisizioni e prospettive di crescita. Certo, occorre mettersi in gioco e conoscere l'altro con un atteggiamento, guidato e coordinato dal mondo delle istituzioni e dall'associazionismo, di reciproca curiosità e fattiva collaborazione. Senza chiusure, senza falsi miti, senza un solidarismo di facciata, controproducente e troppo spesso opposto e percepito come unica reale alternativa alla becera propaganda della destra e della Lega.
D'altra parte è proprio dalla squallida deriva subculturale delle camicie verdi che escono fuori le dichiarazioni razziste del vicepresidente del Senato Calderoli. Con a ruota gli immancabili cretini della seconda ora, tipo Serenella Fucksia, che, evidentemente provata dalla singolarità del nome che porta, non ha voluto far mancare il suo contributo, chiarendo che l'accostamento all'animale non deve essere considerato un insulto e aggiungendo che Calderoli è in effetti il miglior vicepresidente del Senato che si possa desiderare. Insomma, dare dell'orango a un ministro di origini congolese ci può stare. E l'ideatore del Porcellum non è neanche poi disprezzabile quando si mette a fare il suo lavoro. È dotato, ma si impegna poco, il ragazzo.
Ecco, ma non si pensi che questi comportamenti siano il frutto un po' sopra le righe di qualche esponente politico vulcanico o particolarmente brioso. Alle spalle c'è, ben forte, una componente paraideologica, capace di evocare e destare le paure riposte delle persone: se il diverso può raggiungere i più alti gradi delle istituzioni italiani, la minaccia è tangibile; è più che una minaccia. Le dichiarazioni di Calderoli sono contro un'idea di società e contro un modello di sviluppo, oltre che contro una persona specifica.

L'obiettivo che si deve perseguire va esattamente nella direzione contraria e passa dallo ius soli e dal diritto di voto, da una scuola più ricettiva e più attenta all'interscambio culturale a strutture capaci di favorire l'integrazione e la compenetrazione reciproca. Non esistono cittadini senza rappresentanza e senza punti di riferimenti istituzionali. Arroccarsi su posizioni di diffidenza o finanche di ostilità serve solo a negare che l'immigrazione ha potenzialità inesauribili, sia in termini di sviluppo economico sia in termini di sbocchi occupazionali. E ciò sia detto senza volere disconoscere gli inevitabili problemi di convivenza che il fenomeno ha creato, crea e creerà. Il punto è sapere affrontarli, magari risolvendoli quando sono ancora in nuce.
E questo compito spetta alla sinistra. Solo una politica miope, o meglio cieca, ha potuto soffrire la concorrenza leghista, senza opporre certezze, parole chiare e contenuti forti. Solo una sinistra senza valori differenti da quelli dell'autoconservazione ha potuto abbandonare alla deriva gli ultimi e farsi subalterna rispetto a coloro che hanno votato la Bossi-Fini, confinando nella categoria di incidentale scocciatura la tutela dei diritti delle persone.

giovedì 11 luglio 2013

Camere da Letta


Ieri è stata l'ennesima pagina orribile nella recente, nonché ricca di insoddisfazioni, storia del Pd. Intendiamoci, niente che chi ha occhi per vedere non sapesse già. Ma ciò che colpisce di più è la straordinaria capacità di arrampicarsi ancora su specchi che non potrebbero essere più viscidi di così. L'autorizzazione a sospendere i lavori delle camere per il pomeriggio di ieri è stata una sconfitta non solo per la sinistra italiana, già ampiamente provata dalle scelte della sua classe dirigente, ma per tutti coloro che hanno a cuore le istituzioni. Quello che è successo non è di difficile lettura: una parte del nostro Parlamento e del nostro esecutivo ha dato vita a una sconcertante azione eversiva nei confronti del potere giudiziario, reo di essersi legittimamente adoperato per evitare la prescrizione nei confronti di Silvio Berlusconi. Ora, la prescrizione non è annoverata tra i diritti degli imputati e, di per sé, non è né a loro favore né contro. Nel caso in questione però essa viene invocata come manna dal cielo, in quanto unico mezzo per salvare il padre padrone. In altre parole, per chi non avesse compreso dove voglio arrivare, il Parlamento è diventata la sede di una lotta senza quartiere a uno dei tre poteri, il mero strumento di una protesta volta al raggiungimento dell'interesse personale e dell'assenza di giustizia.
Ribadire che si è trattato di un normale passaggio parlamentare, in linea rispetto alla prassi consueta, significa fingere di non capire il vero significato delle rivendicazioni pidielline. E significa altresì scendere a patti con valori che non si possono mercanteggiare, quali il rispetto delle istituzioni e dello Stato. So perfettamente che questi incidenti di percorso, come anche i vari Nitto Palma, Santanchè, abolizione forzosa dell'IMU e compagnia bella, erano ampiamente prevedibili, dal momento stesso in cui il governissimo è entrato in carica. Ma non mi sembra il caso di addurlo come argomento a giustificazione dell'episodio di ieri. La verità è che il Pd ha scelto di rendersi correo di logiche personalistiche e minatorie rispetto alla tenuta della nostra convivenza democratica e civile. E non è la prima volta.

Attenzione però alle facilonerie. Da ieri piovono, soprattutto sui social network, commenti e post virali contro il Pd e, incredibilmente, contro chi a questa prassi si è sempre opposto nei fatti. E contestualmente piovono inesattezze e revisionismi mostruosi. Se siamo qui adesso a deprecare con fervore le oscenità di una creazione di laboratorio in grado soltanto di rinviare alle calende greche ogni santissima decisione ci sia da prendere, la responsabilità non è certamente solo dei responsabili (scilipotianamente intesi). Chi non ha voluto mettersi in gioco e provare a discutere e dialogare con gli altri dovrebbe per lo meno avere il coraggio di sostenere la propria posizione e non, al contrario, fingere che certe cose non siano avvenute, rivisitando la storia recente ben peggio di quanto non facciano i tanto deprecati organi di stampa. Le cagnare postume sono paragonabili a quelle degli altri, i garantisti dell'ultima ora. Finora, e lo dico con sincero sconforto, a parte scontrini, scie chimiche, giochini da Dc e sparate inutili, dal M5S non abbiamo potuto apprezzare un contenuto che sia uno. Non dico un progetto, ma neanche un contenuto.


Per svoltare davvero occorre ricostruire dalle fondamenta la sinistra. E, che vi piaccia o meno, senza l'organizzazione e le potenzialità del Pd questa operazione non si può fare. Chi ha voglia di provarci batta un colpo. Gli altri possono pure seguitare ad avallare i comodi del Cainano o restare senza giacca sull'Aventino, consci però che così le cose non potranno che peggiorare.  

mercoledì 10 luglio 2013

Cosa ci portiamo da Reggio


Diciamolo, per una volta, senza paura: il compito che abbiamo segnato sul diario rientrando da “Viva la libertà” è quello di rifondare la sinistra italiana. Ce lo siamo segnato a penna, con un inchiostro indelebile. E lo abbiamo fatto tutti. Non per un senso del dovere generalizzato ma perché per riuscire nell'impresa bisogna impegnarsi insieme, senza affidarsi al solista risolutore di turno. Occorre costruire un progetto, guardando al futuro attraverso il passato.
Da Reggio riportiamo indietro questo appunto sul diario e un modello più preciso in testa. Abbiamo visto che si può parlare di politica, discutere, coinvolgere le persone, affrontare senza paternalismo questioni non immediate, convergere e divergere senza scadere nella contrapposizione strumentale. Abbiamo visto la passione, abbiamo visto uno spazio affollato, come poche volte negli ultimi tempi, bonariamente chiassoso, brulicante di vita ed entusiasmo.
Per poche ore abbiamo avuto la sensazione di poter cambiare il mondo. Prima di tornare alle cacce al piccione e alle finte necessità illuminanti. Abbiamo percepito che c'è in giro una passione per la politica che la politica stessa e il Pd hanno contribuito a prostrare. Abbiamo pronunciato parole ormai quasi impronunciabili, come lotta alla corruzione, rilancio dell'economia verde, reddito minimo, etica pubblica, rifiuti zero. Abbiamo detto forte e chiaro che il futuro non è a destra ma a sinistra, confutando l'inveterata e comoda certezza che senza diventare berlusconiani non si vince. Abbiamo ribadito che l'appoggio a questo governo non è un dato scontato e immutabile in aeternum e che non possiamo soffrire costantemente di schizofrenia. Abbiamo restituito ai nostri elettori, ai nostri concittadini, la dignità e l'onere di essere parte in causa dei processi decisionali. Abbiamo stabilito che alle loro porte non si può andare il giorno prima delle elezioni, ma anche e soprattutto il giorno dopo. Abbiamo ricordato a tutti che la politica è fatta di partiti, che, per definizione, hanno visioni di parte e che l'etichetta di centro si addice molto a chi ha tutto da guadagnare nel non prendere posizione. Abbiamo chiamato in causa Macbeth e il fantasma di Banquo, immedesimandoci con l'uno e con l'altro e auspicando di liberarci dai sensi di colpa, subito. Abbiamo ricollocato l'entusiasmo e quella sana follia shakespeariana al loro posto, contro il grigiore del già deciso e dell'indecidibile.
Non abbiamo avuto paura della nostra ombra, non ci siamo vergognati di noi stessi, non ci siamo assunti una responsabilità utile solo a chi non ha bisogno di cambiare, non abbiamo stabilito in partenza quali parole pronunciare, non abbiamo dovuto chiedere scusa all'apparato, anche se ci chiederà di farlo.

Se il Pd fosse come quello visto a Reggio, nessuno dovrebbe liberarci dall'impasse di votare una pitonessa di polistirolo come vicepresidente della Camera.

mercoledì 26 giugno 2013

Uni, trini, troni



Sarà la seconda, sarà la terza, sarà ancora la prima. In ogni caso, la nostra Repubblica tanto bene non sta. È notizia di ieri, ma non fa granché notizia, l'apprendistato di Marina Berlusconi: studia per succedere al padre, che, come sappiamo, si trova, come dire?, impegnato su più fronti e potrebbe avere qualche illegittimo impedimento nei mesi a venire. Una successione dinastica in piena regola.
Vedete, ciò che mi colpisce non è tanto il fatto in sé, cioè che il nostro Redentore voglia compiere questo passaggio di consegne. In fondo la dialettica Padre/Figlio e Padre/Figlia è solo la riproposizione in salsa rosa di altri evangelici rapporti. Lodevole. Che non si dica che è maschilista. Lui alle donne ha sempre pensato. Ciò che davvero mi colpisce è l'immagine che lui e i suoi hanno dell'elettorato italiano: insomma, se si procede con questa operazione si dà per scontato che un passaggio di consegne di tipo dinastico possa comunque trovare una buona fetta di approvazione tra i cittadini del bel paese. Il consenso, così interpretato, è estensivo, dal padre alla figlia, e non più semplicemente personalistico. Una dottrina eschilea al contrario: le gesta e le imprese dei padri ricadono sui figli e sul ghenos. Niente male.
Un dio collerico e vendicativo, più del Dio veterotestamentario, alberga nelle fila dei rivoluzionari nostrani. Paradossale e rivelatrice, in tal senso, la notizia del veto posto dal Grillo berciante alla consultazione, rigorosamente virtuale (in tutti i sensi), in merito all'offerta di Marino (ohibò, kasta!) rivolta ai Cinque Stelle romani di far parte attivamente della giunta comunale. Una mossa, quella del neosindaco di Roma, che, per inciso, ha tanto da dire ai dirigenti nazionali del Pd, a coloro che hanno individuato nell'ottusità, nell'opportunismo e nella malafede del comico crinito i migliori argomenti per fare ciò che da sempre progettano di fare. Tu chiamala se vuoi complementarità.
Ciò non toglie nulla ovviamente alla mostruosità di un modello di (non) partito, nel quale una democrazia diretta inattuabile nei fatti e nella storia assurge a modello di organizzazione interna ideale ma, al contempo, il dispotismo più becero e totalizzante viene praticato con la disinvoltura di chi beve un bicchier d'acqua. La questione è solo capire quando il nostro alter-Silvius farà frequentare al nipote il corso intensivo di “assolutismo ed epurazione” presso l'università telematica Casaleggio & Travaglio.
Di certo non si ride dall'altra parte, se è vero che l'unico partito ormai rimasto in Italia è troppo impegnato a dire di essere l'unico partito ormai rimasto in Italia. Nel frattempo però, mentre si stigmatizza giustamente il personalismo degli altri schieramenti, sfugge il dettaglio che il Pd ha sostituito il personalismo con i personalismi. Che, se non è peggio, di certo è una complicazione poco funzionale. Correnti in cui i riposizionamenti funzionali all'autoconservazione e alla rendite personali sono la regola, la vivacità di pensiero e la dialettica formativa sono annullate, le critiche e il dissenso sono tenuti a bada dallo spettro del sempre più abusato, travisato e obsoleto principio del centralismo democratico. Alla fine, prima o poi, si apriranno le danze del congresso. E sarà il consueto florilegio di brutture, giochini di potere grandi e piccoli e meccanismi cooptativi ingiustificabili. Sarà il trionfo dei rottamatori a braccetto con i rottamandi e i rottamati. Il guaio è che da lì, dal congresso, passano le sorti del centrosinistra italiano e del Paese intero. Una responsabilità che davvero faccio fatica a lasciare a questa nostra élite intellettuale.

Il futuro è dietro l'angolo. Non è plurale, non è democratico e non cognitivo, nel senso barchiano del termine. Se qualcuno, magari non trino, vuol cambiarlo sul serio batta un colpo.

mercoledì 19 giugno 2013

Facsimile di “critica razionale” a Beppe Grillo

                                                                                               [Luogo e data (nel calendario peppiano)]

Caro Beppe,
             so perfettamente quanto tempo dedichi all'attività politica, direttamente dalla tua villa di Sant'Ilario (“che non si trattava di un missionario”), e so con quanta passione ti fai carico di tutti i problemi del Paese, sostenendo, da solo, sulle tue spalle, come un novello Atlante, il peso di una nazione: le disgrazie dei nullatenenti, degli esodati, dei cassaintegrati, dei finanziatori della politica che avevano perso il lavoro a causa delle leggi staliniste della Casta, degli immigrati a cui consigli giustamente di stare a casa loro, dei poveri Italiani vessati da un apparato statale veterocomunista e inciucista. Ti seguo da prima che ti mettessi a spaccare i pc sul palco. Ho seguito con vibrante passione le tue battaglie sul mooncup e sulle scie chimiche. Non ho mai guardato un talk show e non ho mai parlato con qualcuno che non fosse del M5S. Odio Floris e leggo solo Il Fatto Quotdiano e il tuo blog. Questo, a scanso di equivoci: non sono un dissidente e non sono un traditore. Non sono di destra né di sinistra. Ma soprattutto non sono di sinistra.
Se ti scrivo è per condividere con te una critica razionale e ben argomentata, non tale da suscitare il tuo, peraltro sempre legittimo, sospetto, né, tanto meno, la tua indignazione. Vorrei che il M5S fosse un partito più unito e coeso, in particolare su alcuni argomenti chiave del nostro operato. Mi riferisco alla comunicazione e all'immagine che diamo di noi all'esterno. In tal senso vorrei che la tua capigliatura assomigliasse molto di più a quella di Casaleggio e a quella del tuo autista. Non dico questo per dare sfoggio di un esercizio meramente estetico fine a se stesso, ma per suggerire di tornare all'antica compattezza, anche e soprattutto esteriore. In tal senso se tutti i nostri parlamentari avessero la chioma fluente del caro Casaleggio o del carissimo autista, daremmo certamente un'immagine molto migliore e molto più rassicurante ai nostri elettori. Capisco d'altra parte le difficoltà a cui va incontro la mia proposta: come si fa con Vito Crimi? La risposta è molto più semplice di quello che sembra: ci facciamo mandare vagonate di Crescina. Noi potremmo essere i loro nuovi uomini immagine e, in cambio, loro potrebbero finanziarci le prossime campagne elettorali. Tanto la casta ha sbloccato i finanziamenti privati ai partiti, senza un limite massimo consentito. Pensaci, Beppe. Secondo me questa proposta ricompatterebbe le nostre truppe.
Con un ossequioso e amorevole abbraccio,

  [Firma digitale e foto del marchio nero]

lunedì 17 giugno 2013

La piazza della discordia


Ogni tanto bisognerebbe mettere in ordine i pensieri e riflettere. E con tutto il chiasso che si fa non è facile. Su piazza Verdi si sono spese troppe parole. A volte sono parole, altre volte, più spesso, grida scomposte.
La questione, secondo il mio modesto parere, non gira intorno agli archi, pure discutibili, né intorno alla pedonalizzazione, sacrosanta, né probabilmente intorno alla manutenzione. La questione è una questione di fiducia. Una fiducia che si è persa non a Spezia, né a Rovigo, né a Eboli, ma in Italia, in generale. Le istituzioni molto spesso non l'hanno meritata, bisogna pure ammetterlo. E quando le cose stanno così, poi si salta con un balzo alle conclusioni più complottiste e meno argomentative, ma tant'è. Nulla si crea dal nulla. E talvolta ne paga le conseguenze chi non lo meriterebbe.
Sul progetto della nostra piazza l'errore è a monte e ha a che fare con un concetto che va molto di moda ultimamente, cioè la partecipazione. Si potevano ascoltare i comitati e invitarli a formulare proposte realizzabili e, magari, migliori di quella che è stata scelta? Si poteva evitare di arrivare al punto di incontrare i cittadini a una settimana dall'inizio dei lavori per presentare una decisione già presa da molto tempo? Si poteva avviare un dibattito vivo e concreto prima di assistere a questa contrapposizione sterile e insensata? La risposta è naturalmente affermativa. Se non lo si è fatto è per una vecchia prassi paternalistica, che non funziona più, ammesso che abbia mai funzionato, e che rivendica a delle élites uno status di superiorità morale e, direi, ontologica smentito dai fatti. Questo ruolo, semmai, ce l'ha la politica, quella inclusiva, quella che informa attraverso la partecipazione alle decisioni, quella che responsabilizza e che chiama tutti a farsi carico delle proprie azioni, oltre che ad assumere un ruolo attivo nella risoluzione dei problemi.

Tutto ciò non giustifica in alcun modo le scempiaggini che si leggono e si sentono in queste settimane sui social network e sui giornali. Succede allora, come succede per le cose di tendenza, che si parli a sproposito. La partecipazione diventa mera caccia all'untore, negazione del diritto di parola, elaborazione di teorie stravaganti, pretesa di parlare nel nome di tutta la città, diventa addirittura assunzione a vertici olimpici di sapere uno storico dell'arte come Vittorio Sgarbi. Succede che si taccia di fascismo un'amministrazione, liberamente eletta un anno fa, che mette in atto quello che era nel programma elettorale. La protesta a cui assistiamo da qualche settimana a questa parte è la logica conseguenza di una prassi, ribadisco, legittima (che non significa giusta) ma non più praticabile. Abbiamo visto cosa ne discende.
La cosa più preoccupante, mi pare, è l'atteggiamento conservatore, a prescindere sospettoso del nuovo e attaccato a un'idea del passato, nella maggior parte dei casi mai esistito, con il quale si è affrontato il problema. La piazza così com'è non funziona. Non valorizza il contesto circostante, brulica di traffico e smog, ha una pavimentazione non funzionale, oltre che orrenda, e soprattutto non è una piazza ma un doppio viale buono per le doppie file. Al centro di essa campeggiano quattro pini “secolari”, che tuttavia non compaiono nelle foto storiche datate 1933, ma in compenso regalano gioie per il dissesto della pavimentazione. Poi piovono cause al Comune ladro. Insomma fare di peggio è oggettivamente difficile, per quanto mi possa dire affettivamente legato a questo spazio urbano che comprende, tra le altre cose, il mio Liceo.
Il Comune ha vinto un bando europeo per cambiare volto alla città. In questo amplissimo progetto è finita piazza Verdi: dunque i soldi europei e, nella misura di un terzo circa, della città che verranno impiegati per essa non sono impiegabili altrove. E in caso di ritardi o tagli ci sono delle penali da pagare. Non le paga né il sindaco da solo né, figuriamoci, Sgarbi. Le paghiamo tutti noi. Certamente andava spiegato meglio.
È stato scelto il progetto di Buren perché, a detta della commissione, più di altri ha saputo combinare il lavoro dell'artista e quello dell'architetto, in un contesto urbano che da molti decenni non vede opere in questo senso, ma solo lavori di riqualificazione (a volte molto riusciti, a volte molto poco riusciti). Si può non condividere la decisione e si può certamente criticare dal punto di vista estetico il lavoro; ma per lo meno bisogna conoscere gli intenti che hanno motivato la scelta.
Molti adducono proprio i passati insuccessi tra le ragioni principali della protesta, trascurando però il fatto che per piazza del Mercato, per esempio, molti degli attuali denigratori sono responsabili della realizzazione del lavoro quanto la giunta comunale di allora. L'amministrazione si è fatta ricattare dagli oppositori, indulgendo a una partecipazione posticcia, che ha sortito un risultato certamente non memorabile.

La realtà tristissima, al di là della logica manichea, è che la città, tutta, ha perso irrimediabilmente un'altra occasione per dimostrarsi matura e affrontare la questione razionalmente, come una collettività vera, esaminando con intelligenza il progetto e senza scadere nella retorica della contrapposizione forzosa. Forse ora avremmo in mano qualcosa di meglio, o forse sapremmo comprendere e valorizzare la nuova piazza. Certamente nessuno avrebbe parlato a nome nostro senza averne diritto. In un senso o nell'altro.

lunedì 10 giugno 2013

Bicchieri pieni

La cosa splendida del relativismo è che tutti lo applicano. Forse addirittura Avvenire: magari avranno individuato nel voto odierno un'inequivocabile tendenza al rigorismo cattolico. Possibile. Soprattutto se c'è chi esulta con tanto di titolone sul giornale di partito per due ballottaggi vinti su tre. Il 66%. Non male. D'altra parte vincere a Pomezia e Assimino ha un valore simbolico devastante. In particolare se un paio di mesi prima si è reclamato il diritto di governare in solitaria.
C'è poi chi legge il risultato di queste Amministrative come una specie di referendum confermativo sull'operato del governo. Mi chiedo solo come interpreterebbe Freud questo inesausto bisogno di autoriconoscimento identitario. L'inconscio è una roba brutta.
C'è anche la banda della facciata, quelli che una “bella botta ogni tanto non può che far bene”. È buffo. Non è la prima che prendono. Forse serviva perdere persino Treviso, la capitale dei parchi senza panchine. Rimarrà qualche corno celtico e qualche pillolina blu in memoria dei vecchi turgidi tempi.
C'è poi chi riesce a perdere tutto, ma proprio tutto, pur in seguito a una robusta dose di ricostituenti, oltre che di lifting. Che non bastino più neanche i medici coi baffi?

In questa multiforme cantina, in cui tutti i bicchieri sono pieni ma sono già tutti ubriachi persi, l'unica certezza, mi pare, è la crescita dell'astensionismo in via proporzionale alle invocazioni alla partecipazione, troppo spesso gridata senza un contenuto alle spalle o senza una volontà reale di applicarla e molto poco praticata realmente. E poi forse possiamo anche dire francamente che alle Amministrative conta di più chi ha dimostrato nel tempo di avere piantato radici molto solide, facendo sbocciare rami secchi. Con occhi un po' meno offuscati si vedrebbe che il potenziale umano e strutturale del Pd viene ogni giorno mutilato, annichilito e umiliato da un modello politico non solo superato, ma smentito dalla storia, perdente, ingiusto. Si vedrebbe, molto banalmente, che quando si candidano persone preparate, con una proposta seria, chiara e magari poco spinta dai dirigenti nazionali si può persino vincere.

Il roboante 16-0 non induca a facili festeggiamenti. Sono pur sempre vittorie avverbiali. Vittorie da “nonostante”.   

martedì 28 maggio 2013

Movimento di corpo


All'indomani della batosta elettorale subita dal Movimento 5 Stelle, leggo con uno strano misto di disgusto, ironia e rabbia l'ennesima avvilente “analisi” politica proposta dal guru Beppe. Evidentemente il comico che non fa più ridere, per serrare le fila, ha bisogno di continue contrapposizioni strumentali, prima imperniate sulla dicotomia casta/società civile, ora su quella poveracci piccoli imprenditori/dipendenti pubblici oziosi e pieni di agi, il tutto condito dalla solita litania del complotto dei media e dei poteri forti. Se Grillo fosse un buon politico, animato da buone intenzioni, saprebbe che gli stipendi dei dipendenti pubblici sono bloccati dal 2010 e che non si sbloccheranno di sicuro prima del 2014. Saprà l'allievo di Stiglitz cosa significa il blocco della contrattazione in termini di perdita di potere d'acquisto?
Ma, al di là del caso particolare, stupisce in seno al Movimento, o almeno nei suoi vertici, la totale mancanza di autocritica e di lucidità, qualità, queste, che li rendono ben degni della politica tradizionale che pretenderebbero di soppiantare.
Il sincero invito che faccio ai militanti grillini è di abbandonare la logica del “tanto peggio tanto meglio”, di smetterla di cercare un immaginario nemico comune e di litigare sulla diaria e finalmente di smarcarsi rispetto alla condotta autoritaria e padronale tenuta dal leader berciante, per iniziare davvero un percorso di maturazione politica, fatto di dialogo e di costruzione di un'alternativa vera, che possa permettersi anche di cogliere occasioni che potrebbero non capitare più.
E ce ne sarebbe davvero bisogno, cari amici grillini. Perché non so se ve ne siete accorti, ma pare che Letta ed Epifani siano al settimo cielo per questi risultati elettorali e, a sentir loro e gli organi di stampa più spaventati dal cambiamento, tipo il Corriere, le grandi intese sono state proprio un bell'affare. Pare inoltre che Nitto Palma stia presentando il nuovo ddl salva-Berlusconi e immaginerete anche voi l'imbarazzo del Pd, vero? Pare anche che i successi alla amministrative stiano giustificando una nuova ondata di involuzione antipartecipativa dentro al Pd, allo scopo di conservare e cristallizzare le solite rendite di posizione e la vecchia politica paternalistica e impositiva, che, correggetemi se sbaglio, di rado ha funzionato ultimamente.
Vi chiedo, amici, siete ancora convinti di poter cambiare qualcosa in questo quadro socio-politico che avete contribuito a creare? Perché il contributo di chi, tra di voi, è animato da buoni propositi e da un'idea di partecipazione ben diversa da quella vista finora e da quella che avete praticato sarebbe molto utile.

Altrimenti ci sono sempre scie chimiche, mooncup e microchip sottocutanei. È solo una questione di scelte.  

lunedì 27 maggio 2013

Le déserteur




Al di là dei risultati, il dato che più salta agli occhi in questa tornata elettorale è il drastico calo dell’affluenza, registrata tra l’altro, in questo caso, nell’entità amministrativa che è storicamente più sentita dai cittadini italiani. E ciò fa il paio con le ultime politiche e con le ultime Regionali. Insomma, chi doveva riportare al voto milioni e milioni di delusi ha fallito. Chi doveva evitare che si venisse a formare una sacca di insoddisfazione così estesa ha fallito prima e continua a fallire ora. Lo so che continuo a chiedere l’impossibile, ma non sarebbe giunta l’ora di mettere davvero in discussione la prassi partecipativa degli attuali organismi partitici? No perché questi dati qualche riflessione dovrebbero suscitarla.
Disertare le urne significa in primo luogo ritenere che il proprio contributo alla vita democratica della collettività sia inutile. Non so se sono chiare le implicazioni distruttive di questo assunto: una disaffezione così crescente verso le istituzioni e i loro rappresentanti è sintomo di un complessivo sfaldamento dell’intero gruppo sociale. Più banalmente, una schiera di persone si autoesclude dai meccanismi rappresentativi semplicemente perché non li ritiene rappresentativi. Terreno fertile per ideali autoritari, terrorismo, violenza.  Il quadro non migliora affatto se individuiamo nel disinteresse la causa di questa massiccia non partecipazione: la frantumazione della coscienza civica è parte attiva nel processo in quanto specchio di una società plurale nei bisogni ma individualistica nelle forme d’azione. In questa concezione della vita pubblica, l’attività politica è percepita solo come il trampolino per prospettive di carriera e non come elaborazione di proposte per il bene comune (vi ricorda qualcosa?).

Se la politica non ritrova questa dimensione, integrando, senza fagocitare, nei suoi processi il numero più alto possibile di persone, movimenti e associazioni e rendendoli parte attiva all’interno di un luogo di discussione finalizzato all’elaborazione di progetti concreti e di soluzioni al rialzo, i dati sono destinati a peggiorare. Il modello americano è dietro l’angolo. La crisi della rappresentanza non può essere l’alibi numero uno, ma lo stimolo a cambiare davvero lo stato delle cose. Ricordatevene quando i soliti noti imporranno di chiudere il congresso del Pd ai soli iscritti, e magari solo a quelli di vecchia data, e/o blatereranno sul successone del modello Lettalfano. Perché lo faranno. Su questo non ho dubbi.

martedì 21 maggio 2013

Manifesta incapacità


La mancata partecipazione del Pd, fatta eccezione per uno sparuto e intrepido drappello, rigorosamente non organizzato, alla manifestazione indetta dalla Fiom segna a mio avviso l'ennesima pagina da voltare in fretta nella non brillantissima storia del maggior partito di centrosinistra in Italia. La questione non è, come erroneamente è stato detto, aderire o non aderire alla piattaforma della Fiom, né, tanto meno, sancire o meno a tavolino un formale consenso. Il punto è mostrare la volontà di interloquire con un soggetto fondamentale come il sindacato di Landini, le cui proposte possono anche non essere condivise in toto, ma devono per lo meno entrare nel dibattito interno. Dimostrare di voler trovare anche insieme a lui soluzioni nuove nell'ambito della tutela dei lavoratori e delle politiche del lavoro.
Altrimenti finisce che il mondo dei sindacati diventa territorio di caccia di chi fino a poco tempo fa diceva che i sindacati andavano soppressi. E, come dovremmo sapere da un pezzo, potenziali temi forti del Pd si trasformano in reali battaglie (post) ideologiche dei grillini.
Evitare l'atteggiamento solito di opacità stantia e di ambiguità superficiale non è solo un fatto di bon ton, ma un kit di sopravvivenza nella società plurale, iniqua e fragile dal punto di vista ideologico in cui viviamo. E per fare ciò è necessario includere gli altri nei propri centri di discussione e aggiungere una sedia al tavolo dei lavori, perché si parli di contenuti e non di spartizioni di cariche. A giustificare le numerose assenze del Pd a questa manifestazione ma anche alle mille battaglie che avrebbe dovuto portare avanti e non ha fatto nel campo della tutela dei lavoratori e non solo non basta di certo il pretesto che chi sta al governo non scende in piazza a protestare.
Al Lingotto il Pd ha messo piede nel 2007 con il colletto bianco. Oggi è rimasto il colletto bianco, ma manca pure la camicia. Dopo blairismo, finta vocazione umanitaria, paternalismo, apparato, correntine, religione del Liberismo e comprensibili crisi di identità possiamo dire che il re è nudo e tutti lo indicano.
O il centrosinistra si riprende il suo spazio o qualcun altro lo occuperà. E non sarà indebitamente. Sarà per responsabilità e volontà chiare di chi lo ha perso.  

lunedì 20 maggio 2013

Fuori dal tunnel, ma non così



Chi pensa che dal tunnel in cui il Pd si è volutamente infilato, scontando drammaticamente tutte le sue contraddizioni, si esca con la disciplina di partito e con il principio di maggioranza semplicemente non ha compreso il significato dell'ultima consultazione elettorale e, più in generale, i cambiamenti occorsi negli ultimi anni. Quello che serve ora al Pd è una reale apertura alla società, ai suoi movimenti, alle sue tensioni, alle sue proposte, ai suoi quanto mai differenziati interessi.
Il Pd deve domandarsi finalmente cosa significhi oggi essere di sinistra: se analizzerà per bene la questione, credo, giungerà alla conclusione che essere di sinistra oggi significa costituire un luogo di discussione, di crescita, di responsabilizzazione e rappresentanza democratica ispirato ai concetti tradizionali della difesa dei più deboli, dell'equità e della giustizia sociale. Che è come dire che occorre ripensare tutto da zero. Non un partito che guardi a particolari classi o a particolari fasce d'età, ma un partito inclusivo, che metta a disposizione di tutti, e non solo militanti e iscritti, i propri spazi per favorire un'impostazione analitica capace di far crescere consapevolezza politica presso l'elettorato e legittimazione rispetto alle proposte elaborate, frutto di confronto serrato e di sintesi al rialzo. O si cambiano le regole del gioco e la base diventa parte attiva del processo (e gli strumenti partecipativi ci sono eccome) o non si ripartirà mai. Ora come ora un'oligarchia squalificata dalla storia delibera e impone la propria linea calandola dall'alto e atteggiandosi a élite intellettuale ontologicamente in grado di garantire il buon governo. Questa prassi ha fallito senza appello. E non ci rimborseranno certo le fusioni fredde, generatrici di pochezza propositiva e cautela non petita.
I mutamenti socio-economici, tecnologici e culturali avvenuti negli ultimi anni impongono nuovi sistemi di rappresentanza democratica. Ma occorrono volontà, lungimiranza e vera vocazione pubblica. Altrimenti troveremo sempre nell'antigrillismo, nell'antiberlusconismo, ormai solo teorico, questo, e nell'antiqualcuno le nostre ragioni costitutive, senza cogliere il vero problema.

lunedì 13 maggio 2013

Mnemotecnica per smemorati



Mi fanno un po' ridere, lo confesso, i richiami all'ordine di Letta ad Alfano e, in generale, ai suoi ministri. Come mi hanno fatto ridere le levate di scudi contro Nitto Palma e la Biancofiore, come se fosse sorprendente fare un governo col Pdl e scoprire che ci sono degli impresentabili. Intendiamoci, non è che non condivida l'ostilità a personaggi di questa caratura; mi stupisce lo stupore. Non ci si butta nel pozzo nero, sperando di uscirne con la faccia lavata. O sbaglio?
Era onestamente un'impresa non da poco resuscitare Berlusconi e, di conseguenza, il suo partito, ormai ridotto ai fedelissimi a orologeria. Eppure, straordinariamente efficace in questo, la strategia del Pd ha vinto tutte le avversità, sorvolando sui processi, sulle cene eleganti, sugli scudi fiscali, sui condoni edilizi, sui tagli alla scuola pubblica, sugli scandali dell'Aquila, sul Lodo Alfano (sempre lui), sulla Bossi-Fini, sugli attacchi all'articolo 18, su tutte le innumerevoli leggi ad personam, sui tagli alla sanità pubblica, sui tagli agli enti locali, sulle promesse mai mantenute, sulle promesse purtroppo mantenute, sulle iniquità fiscali e sulle infinite altre amenità che non posso elencare per ragioni di tempo e di spazio. 
Non parlo poi di cosa ha significato dal punto di vista socio-culturale il ventennio berlusconiano: dal trionfo dell'individualismo anti-etico, all'esaltazione della furbizia ladruncola e ladrona, passando per la scienza del fast-thought, dello slogan preconfezionato e della tv che pensa per te. Il significato dell'intesa Pd-Pdl è epocale e alla sua realizzazione non soggiace affatto l'urgenza di alcune questioni fondamentali (che c'è eccome e c'era anche prima), ma l'istanza autoconservativa di molti del Pd, trasversalmente per una volta, che vedono come il Babau una politica differente e di cambiamento. Cambiamento vero, non sbandierato e utilizzato a fini demagogici.
Poi all'Assemblea Nazionale si può anche andare e non dire nulla, fingendo di aver detto tutto, e si può andare a giustificare l'ingiustificabile nel nome del rispetto di quelle istituzioni mai così calpestate come hanno fatto e fanno gli attuali “alleati”. E si può anche tentare di serrare le fila e stringersi attorno a una manovrina di palazzo, sperando di far passare più tempo possibile prima del Congresso e limitare così il sentimento critico oggi tanto diffuso presso la base. Potranno passare anche trent'anni. Ho la memoria lunga. E non solo io. 

giovedì 9 maggio 2013

Frequentate frequenze



Non so se ve ne siete accorti ma la campagna elettorale, se per qualuno non è mai iniziata, per qualcun altro non è mai finita. Molto banalmente, basterebbe sintonizzarsi sui canali Mediaset per vedere l'invasione mediatica, particolarmente potente in questi giorni, di Berlusconi e i suoi sodali. Due giorni fa la D'Urso ha improvvisato un fine dibattito sull'IMU, stasera, da Del Debbio (l'ex opinionista di Studio Aperto col gatto in testa, per capirci) su Rete 4, Silvio in persona ha promesso in diretta di aiutare una coppia campana in difficoltà e una signora che, disperata, ha occupato una casa popolare e domenica in prima serata andrà in onda un programma significativamente intitolato “La guerra dei vent'anni. Ruby, ultimo atto”. Aspettiamo con ansia una resurrezione, magari Andreotti (io la butto lì), e una moltiplicazione di escort. Sabato poi si terrà l'ennesima manifestazione contro la magistratura in quel di Brescia. Magari avrà copertura televisiva totale.
Attenzione, il piano è chiarissimo e lo preconizzava Nanni Moretti ne “Il Caimano” ormai sette anni fa: attraverso una serie di “battaglie” popolari, come l'IMU, e slogan ad alta digeribilità, il nostro Priapo si propone di portare l'opinione pubblica dalla sua parte nell'impresa di delegittimare la magistratura, cioè uno dei tre poteri dello Stato, e salvare il posteriore. Non esattamente una novità, se la vogliamo dire tutta. Giova però mettere in evidenza che questa prassi mai veramente morta sta prendendo ulteriore vigore.
La novità vera è che stavolta il Pd si rende corresponsabile nella maniera più evidente e intollerabile. Con le proprie mani ha resuscitato un morto e lo ha rimesso nelle condizioni di contare qualcosa, addirittura giungendo all'imponderabile di costruire con lui (o per lui) una squadra di governo. Non dimentico il concorso di colpa di Beppe Grillo, sia chiaro. Ma l'esplosione del suo movimento è espressione delle ambiguità e delle irrisolte contraddizioni del maggior partito di centrosinistra. Lo stilicidio di voti, da sinistra, sarebbe palese anche a un bambino.

Pensare di formare un esecutivo di responsabilità con un personaggio di tal risma significa due cose: o che si crede davvero in una sua estemporanea e sorprendente conversione o che guardare a destra, e alla sua destra, piuttosto che a sinistra è più comodo e conveniente. Comunque sia, aspettiamoci l'apertura del Mar Rosso in diretta tv. Parafrasando uno che ha quasi vinto la morte, ce la siamo cercata.

Desideri e speranze per un partito che non c'è (ancora)


Sogno un partito in cui davvero uno vale uno. Non per “rincorrere i grillini”, come qualcuno spesso dice con disprezzo, ignorando che se i grillini esistono è perché troppi errori finora sono stati fatti da chi si trovava in posizione di potere. Sogno un partito in cui uno vale uno nel senso che non vorrei più sentire frasi come “io la base non la sento”. È l'ora di finirla con l'idea che a pensare per noi ci sono i dirigenti, gli unici che sono capaci di distinguere il bene dal male, mentre noi siamo una massa informe che, semplicemente, non capisce. 

Sogno un partito in cui non sia concepibile l'idea di acclamare Prodi al mattino per poi impallinarlo vigliaccamente al pomeriggio. Sogno un partito in cui non si debba andare a supplicare un uomo di 87 anni di farsi rieleggere perché altre soluzioni non ci sono. Sogno un partito in cui non si debba più sentire la frase “Rodotà non fa parte della mia cultura politica”, perché il partito che sogno è davvero un partito di sinistra e non ha paura di dirlo a voce alta. 
Sogno un partito che se entra in Parlamento con una coalizione poi non la distrugge perché c'è chi a Vendola preferisce Berlusconi; sogno un partito vero di sinistra che non ha paura della sinistra e che la smette di guardare al centro, a destra, in alto e in basso, ma a sinistra mai. 
Sogno un partito in cui chi sbaglia paga e non un partito in cui chi sbaglia va al governo mentre a pagarne le conseguenze siamo, come sempre, noi. Sogno un partito in cui la colpa degli errori commessi sia finalmente assunta da chi ce l'ha e non sia invece data ai giovani eletti che si tengono in contatto con i propri elettori, come è giusto che sia. È troppo facile scaricare il barile per fuggire dalle proprie responsabilità. Ah, la responsabilità: sogno un partito, e in generale un mondo intero, in cui sia ancora possibile ascoltare questa parola senza esserne disgustati. Perché ormai è stata svuotata di significato. Sogno un partito in cui, se un giorno si dice “responsabilità è cambiamento”, il giorno dopo non si dica “la responsabilità è andare al governo con il Pdl”. 
Nel partito che sogno, semplicemente, non si fa un governo con il Pdl e non si permette a personaggi folkloristici e dalla dubbia statura morale di inventare ogni giorno una nuova minaccia o un nuovo ricatto. Non si permette a gente come questa di influire sul mio futuro. 
È proprio per questo che sogno un partito che non ha paura di ammettere i propri sbagli. Un partito di cui i circoli siano il cuore pulsante, il luogo dell'incontro, del confronto e a volte anche dello scontro. Anche quello serve. Un partito in cui le persone siano davvero motivate e non guidate da invidie o da interessi particolari di carriera e poltrone. Sogno un partito meno autoreferenziale, in cui i dirigenti smettano di parlarsi addosso e inizino, finalmente, ad ascoltare anche chi sta fuori. In cui i dirigenti e i militanti non debbano seguire in modo acritico la linea di partito, perché quel tempo è finito. Bisogna essere liberi di dissentire e non giustificare sempre tutto, anche quello che giustificare proprio non si può. 
La prima volta che sono entrata in questo circolo, qualche anno fa, sono venuta a votare Ignazio Marino segretario; non so se qualcuno qui se lo ricorda, ma si dava agli elettori una molletta verde con sopra scritto: io ci tengo. Ecco, vorrei sapere se noi che siamo qui ci teniamo ancora. Perché se davvero ci teniamo, dobbiamo abbandonare le vecchie logiche e spalancare le porte senza paura di andare incontro a una rivoluzione. Perché il partito che sogno non è diviso in mille correnti. Il partito attuale è poco votato dai giovani, perché ai giovani non sa parlare: ai giovani poco importa di chi è ex-DC, ex Pci e chi più ne ha più ne metta: nel partito che sogno, tutti sono del PD e non c'è spazio per inutili rancori e vecchie ruggini. Nel partito che sogno non c'è bisogno di usare la parola “rottamazione”, perché tutti sono giovani, dentro. Nel partito che sogno le persone non hanno paura di dire quello che pensano perché altrimenti vengono tacciate di essere “renziane, bersaniane, lettiane, dalemiane o veltroniane” e allora poi non ci si parla più. In questo partito si ha il coraggio di dire che questo governo non va bene e che altre soluzioni dovevano essere trovate; in questo partito non ci si adegua solo perché “l'ha detto il partito e quindi è legge”. 
Sogno un partito in cui le decisioni non vengono calate dall'alto, ma in cui la base è attiva, attenta e propositiva. Un partito in cui il flusso di idee sia dal basso verso l'alto e non soltanto il contrario. 
Sogno un partito che non pensa a chiudere i congressi per mera volontà di autoconservazione, stravolgendo il termine “democratico” che pure è nel suo nome. Sogno un partito più aperto, che spalanchi le porte ai cittadini, che li coinvolga, che tenga in conto la loro opinione. Un partito con tanto coraggio. Il coraggio anche di cambiare tutto, perché così non va. 
Un partito così si potrebbe anche tornare a votarlo. Basterebbe sostituire alla parola “sogno” la parola “voglio” e darsi da fare perché accada davvero.

domenica 5 maggio 2013

La torre d'avorio




Trovo davvero inaccettabile che, dopo la sconcertante sequela di disastri compiuti nelle ultime settimane e, più in generale, negli ultimi vent'anni dalla dirigenza del Pd, si parli di chiudere il congresso e, finanche, di procedere con un'operazione simile, mutatis mutandis, a quella del 2009 quando Franceschini fu reggente e poi candidato alla segreteria. Ma stavolta senza primarie.
Per come si è evoluta la situazione appare più chiaro del sole che l'istinto di autoconservazione stia decisamente prendendo il sopravvento su una lettura onesta e realistica della realtà, che, come minimo, consideri la disapprovazione profonda che viene dalla base, o per lo meno da quella parte di essa che non si è fatta convincere dagli afflati autoassolutori di certi dirigenti, locali e non. Pensavamo davvero di aver chiuso i conti con quella politica paternalistica che impone se stessa al proprio elettorato, forte di una superiorità morale e strategica. Molto supposta, nel nostro caso, laddove il termine va inteso anche come sostantivo. Con la scusa sempreverde dello stato di emergenza, i dirigenti Pd si chiudono a riccio nella torre d'avorio del conservatorismo e di quella vecchia (mala) politica sconfitta sonoramente alle ultime elezioni. Lo strumento privilegiato torna a essere la disciplina di partito, a emblema di una sconfitta politica, intellettuale, identitaria e culturale.

Tra un piano di involuzione e l'altro c'è poi spazio per lo stupore: Biancofiore ricollocata, minacce del Pdl in caso di ius soli, Berlusconi che si propone come presidente di quella superba e incostituzionale perversità che si chiama Convenzione per le riforme. Sorpresa generalizzata. Come se affidare il governo e consegnare il Paese a queste persone avesse mai significato qualcosa di diverso e più nobile. Che si sprechino pure i paragoni con la Resistenza e Badoglio e il compromesso storico. Da tali esimi exempla scaturirono l'8 settembre e il CAF e la relativa impotenza del PCI, tanto per capirci.
Se vogliamo azzardare un confronto, restiamo sull'8 settembre. La confusione, la rabbia, lo sbando di quel giorno sono anche i nostri.