Da un'intervista -
pubblicata da Repubblica - ad Andrea Zunino, uno dei leader del
movimento dei forconi, apprendiamo, tra le altre amenità, che il
modello politico a cui in Italia si dovrebbe guardare è il premier
ungherese Viktor Orbàn, che un ristretto gruppo di banchieri ebrei
tiene tutto il mondo alla catena e che Hitler, che era “probabilmente
pazzo”, ha reagito con l'antisemitismo per vendetta nei confronti
di finanziatori americani che gli avevano voltato le spalle. Il tutto
condito dalla specialità della casa: i politici sono tutti uguali,
le camere devono essere sciolte e il governo si deve dimettere per
lasciare il posto a un esecutivo di “solidarietà”, formato da
giuristi e costituzionalisti.
Ora, non credo di andare
sotto la taccia di allarmista se dico che trovo considerazioni di
questo tipo oltremodo preoccupanti. La prima parola che mi è venuta
in mente è stata “deliranti”. Ma mi sono corretto. Il delirio è
uno stato allucinatorio e confusionale, nel quale il giudizio sulla
realtà risulta alterato. In questo caso non siamo davanti a un pazzo
psicotico: siamo davanti a un cittadino italiano che, seguito da
molti altri, ritiene che la via d'uscita dalla crisi e dalle
inefficienze di uno stato obiettivamente mal governato sia una svolta
autoritaria e nazionalista, sollecitata da una protesta portata
avanti con sistemi intimidatori, populisti e squadristi. Questo leggo
in queste dichiarazioni e negli eventi di cronaca. E francamente
provo una profonda inquietudine.
Beninteso, è del tutto
contraria alle mie intenzioni la volontà di difendere l'operato di
governi a volte deludenti e il più delle volte disastrosi, e, in
generale, una classe dirigente incompetente, furbetta, affarista e
quasi sempre interessata a difendere, con tutti i mezzi possibili, le
proprie rendite di posizione. Ma sono anche convinto che non è
giocando a freccette con le istituzioni del nostro paese che
troveremo la soluzione. Né, tanto meno, la troveremo pensando che il
nostro sistema sia organizzato in maniera dicotomica, con una netta e
distinguibile linea di demarcazione tra la cosiddetta “società
civile”, composta di nobili e magnanimi lavoratori sottopagati, e
una nebulosa ed eterogenea “casta”, di cui conosciamo solo una
caratteristica dirimente: “ruba”.
Ecco di fronte a
semplificazioni di questo tipo mi vengono i brividi. Non solo perché
le approssimazioni, se possono essere utili a scopo meramente
didattico, quando vengono utilizzate in via assiomatica danno luogo a
distorsioni del reale, così profonde da compromettere un intero
sistema culturale e sociale; ma perché questi ragionamenti sono agli
antipodi di quella che è la proposta politica nella quale credo
fermamente e che cercherò di portare avanti in ogni occasione.
Proposta che è poi, in una parola, quella della collettività, e
cioè quella di una strategia volta a riconnettere i pezzi di un
tessuto sociale disperso, per i danni causati da un sistema
liberistico profondamente sperequativo e darwiniano, attraverso lo
strumento della mobilitazione cognitiva. Solo con la partecipazione,
declinata in tutti i suoi possibili sensi, dalla militanza in partiti
al semplice atto di informarsi, passando per l'attivazione di
strumenti volti alla socializzazione preliminare (e non a giochi
fatti) e aperta di decisioni che spettano all'amministrazione, si può
recuperare un corpo, nel quale il vuoto di rappresentanza o la
rassegnazione del “meno peggio” non siano i caratteri distintivi.
E i sentimenti di esclusione e inappartenenza siano marginalizzati il
più possibile.
In un normale stato
democratico nessuno deve sentirsi estraneo né al diritto di
esprimere la propria opinione, nei limiti imposti dalla nostra
Costituzione, e di proporre soluzioni che portino benefici alla
comunità, né, però, al dovere di assumersi le responsabilità,
sempre con gradazioni differenti, di eventuali fallimenti e scelte
sbagliate. La nostra pagina nuova dovrebbe essere all'insegna di una
grande presa d'atto: una gestione oligarchica della vita politica
italiana è contraria a tutti i principi e le norme della vita
sociale, ma così è anche quel sistema sottocutaneo e che,
nondimeno, vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, che ha
consentito che le cose prendessero questa piega. Un sistema
costituito da corruzione, clientelismo, nepotismo, infiltrazioni
mafiose, favori agli amici, corsie preferenziali, evasione fiscale.
Tutto nel nome di un motto mai ammesso ma sempre evidente,
auto-manifesto: se sono più furbo prevalgo. Se invertiamo i fattori
e ammettiamo che l'essere parte di una comunità implica l'attenzione
verso gli altri soggetti di questa stessa comunità e implica,
altresì, che la buona politica nasca dal concentrare tutte le forze
in un impegno di lettura critica del reale, forse abbiamo delle
speranze.
Ecco perché mi
spaventano tanto le prese di posizione di Zunino, ma con lui tanti
altri che siedono anche in Parlamento: attraverso di esse filtra il
messaggio contrario, e cioè che destabilizzando le istituzioni e
invocando una rivoluzione in apparenza iconoclasta, che preveda la
sostituzione indiscriminata degli interpreti, ma che in realtà
lascia inalterati i meccanismi che hanno permesso a quegli interpreti
di prosperare, si possa in qualche modo uscire magicamente dalla
crisi. Non funziona così. Non andrà così. Vivremo ancora le stesse
situazioni se utilizzeremo ancora questi strumenti di lettura della
realtà. E assisteremo a giovani cinquantenni che, evidentemente
presumendo di essere stati calati da Marte l'altro ieri, urleranno la
propria frustrazione e il proprio bisogno di violenza repressa, al
contempo autoassolvendosi, deresponsabilizzandosi. Magari dopo anni
di disinteresse verso la società, la politica, la cultura.
Non stupisce che il passo
successivo, già tentato, sia il rogo dei libri, l'annientamento
degli strumenti di comprensione del reale.
Perché sarà anche vero
che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la
seconda come farsa. Ma questa farsa mi sembra già fin troppo
tragica. E non lo è da ieri.