venerdì 13 dicembre 2013

Tra vecchio e nuovo




Da un'intervista - pubblicata da Repubblica - ad Andrea Zunino, uno dei leader del movimento dei forconi, apprendiamo, tra le altre amenità, che il modello politico a cui in Italia si dovrebbe guardare è il premier ungherese Viktor Orbàn, che un ristretto gruppo di banchieri ebrei tiene tutto il mondo alla catena e che Hitler, che era “probabilmente pazzo”, ha reagito con l'antisemitismo per vendetta nei confronti di finanziatori americani che gli avevano voltato le spalle. Il tutto condito dalla specialità della casa: i politici sono tutti uguali, le camere devono essere sciolte e il governo si deve dimettere per lasciare il posto a un esecutivo di “solidarietà”, formato da giuristi e costituzionalisti.
Ora, non credo di andare sotto la taccia di allarmista se dico che trovo considerazioni di questo tipo oltremodo preoccupanti. La prima parola che mi è venuta in mente è stata “deliranti”. Ma mi sono corretto. Il delirio è uno stato allucinatorio e confusionale, nel quale il giudizio sulla realtà risulta alterato. In questo caso non siamo davanti a un pazzo psicotico: siamo davanti a un cittadino italiano che, seguito da molti altri, ritiene che la via d'uscita dalla crisi e dalle inefficienze di uno stato obiettivamente mal governato sia una svolta autoritaria e nazionalista, sollecitata da una protesta portata avanti con sistemi intimidatori, populisti e squadristi. Questo leggo in queste dichiarazioni e negli eventi di cronaca. E francamente provo una profonda inquietudine.

Beninteso, è del tutto contraria alle mie intenzioni la volontà di difendere l'operato di governi a volte deludenti e il più delle volte disastrosi, e, in generale, una classe dirigente incompetente, furbetta, affarista e quasi sempre interessata a difendere, con tutti i mezzi possibili, le proprie rendite di posizione. Ma sono anche convinto che non è giocando a freccette con le istituzioni del nostro paese che troveremo la soluzione. Né, tanto meno, la troveremo pensando che il nostro sistema sia organizzato in maniera dicotomica, con una netta e distinguibile linea di demarcazione tra la cosiddetta “società civile”, composta di nobili e magnanimi lavoratori sottopagati, e una nebulosa ed eterogenea “casta”, di cui conosciamo solo una caratteristica dirimente: “ruba”.
Ecco di fronte a semplificazioni di questo tipo mi vengono i brividi. Non solo perché le approssimazioni, se possono essere utili a scopo meramente didattico, quando vengono utilizzate in via assiomatica danno luogo a distorsioni del reale, così profonde da compromettere un intero sistema culturale e sociale; ma perché questi ragionamenti sono agli antipodi di quella che è la proposta politica nella quale credo fermamente e che cercherò di portare avanti in ogni occasione. Proposta che è poi, in una parola, quella della collettività, e cioè quella di una strategia volta a riconnettere i pezzi di un tessuto sociale disperso, per i danni causati da un sistema liberistico profondamente sperequativo e darwiniano, attraverso lo strumento della mobilitazione cognitiva. Solo con la partecipazione, declinata in tutti i suoi possibili sensi, dalla militanza in partiti al semplice atto di informarsi, passando per l'attivazione di strumenti volti alla socializzazione preliminare (e non a giochi fatti) e aperta di decisioni che spettano all'amministrazione, si può recuperare un corpo, nel quale il vuoto di rappresentanza o la rassegnazione del “meno peggio” non siano i caratteri distintivi. E i sentimenti di esclusione e inappartenenza siano marginalizzati il più possibile.
In un normale stato democratico nessuno deve sentirsi estraneo né al diritto di esprimere la propria opinione, nei limiti imposti dalla nostra Costituzione, e di proporre soluzioni che portino benefici alla comunità, né, però, al dovere di assumersi le responsabilità, sempre con gradazioni differenti, di eventuali fallimenti e scelte sbagliate. La nostra pagina nuova dovrebbe essere all'insegna di una grande presa d'atto: una gestione oligarchica della vita politica italiana è contraria a tutti i principi e le norme della vita sociale, ma così è anche quel sistema sottocutaneo e che, nondimeno, vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, che ha consentito che le cose prendessero questa piega. Un sistema costituito da corruzione, clientelismo, nepotismo, infiltrazioni mafiose, favori agli amici, corsie preferenziali, evasione fiscale. Tutto nel nome di un motto mai ammesso ma sempre evidente, auto-manifesto: se sono più furbo prevalgo. Se invertiamo i fattori e ammettiamo che l'essere parte di una comunità implica l'attenzione verso gli altri soggetti di questa stessa comunità e implica, altresì, che la buona politica nasca dal concentrare tutte le forze in un impegno di lettura critica del reale, forse abbiamo delle speranze.
Ecco perché mi spaventano tanto le prese di posizione di Zunino, ma con lui tanti altri che siedono anche in Parlamento: attraverso di esse filtra il messaggio contrario, e cioè che destabilizzando le istituzioni e invocando una rivoluzione in apparenza iconoclasta, che preveda la sostituzione indiscriminata degli interpreti, ma che in realtà lascia inalterati i meccanismi che hanno permesso a quegli interpreti di prosperare, si possa in qualche modo uscire magicamente dalla crisi. Non funziona così. Non andrà così. Vivremo ancora le stesse situazioni se utilizzeremo ancora questi strumenti di lettura della realtà. E assisteremo a giovani cinquantenni che, evidentemente presumendo di essere stati calati da Marte l'altro ieri, urleranno la propria frustrazione e il proprio bisogno di violenza repressa, al contempo autoassolvendosi, deresponsabilizzandosi. Magari dopo anni di disinteresse verso la società, la politica, la cultura.
Non stupisce che il passo successivo, già tentato, sia il rogo dei libri, l'annientamento degli strumenti di comprensione del reale.


Perché sarà anche vero che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Ma questa farsa mi sembra già fin troppo tragica. E non lo è da ieri.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il voto utile


È paradossale sentire appelli al voto utile da parte di chi ha avallato lo slogan più antiestetico, diseducativo e patetico che conosca. Mi riferisco naturalmente alla campagna elettorale per le elezioni del febbraio 2013, culminata con l'argomento che meglio rappresenta appieno il senso della povertà culturale della proposta politica: votateci perché gli altri sono peggio.
È paradossale, dicevo, sentire questi appelli. Un po' perché mi pare che la cosa assuma i tratti del patologico: ma, si sa, noi di sinistra, e in particolare noi del Pd, siamo straordinariamente capaci di interrogarci per decadi sui nostri sbagli, ripetendoli puntualmente e periodicamente. Un po' perché dovremmo finirla di propinare alle persone ricette meno che mediocri, facendo finta che non se ne possano trovare di migliori. E un po' perché chiamare di nuovo a raccolta le truppe contro un nemico comune, facendo finta che anche Civati giochi nella sua squadra, è, prima ancora che una scorrettezza, una mossa triste. Da basso impero. Di un impero basso da sempre.
Eh sì perché poi, stringi stringi, il problema è la credibilità. E se per anni hai predicato tutto il contrario di ciò che hai fatto, finisce che gli appelli al voto utile suonino come appelli al voto inutile, esattamente come i reiterati richiami a comportamenti responsabili paiono sempre più incitamenti a comportamenti scapestrati e criminali. Così l'impressione è che non resti altro che invocare un voto di sinistra, buono a sedare gli animi di quegli iscritti nostalgici del Pci, ma stancamente, come la ritualità consueta di chi ha vissuto di questi espedienti e continuerà a farlo, sfruttando le illusioni di una militanza troppo generosa, disposta a rinnovare l'utopia della svolta a sinistra con la dirigenza che nella storia della sinistra italiana ha più di tutte guardato (e non solo guardato) a destra. Evidentemente da queste parti strabismo e torcicollo non sono un problema.
Questa è la sinistra che ha problemi a convivere con Renzi, ma non ne ha neanche un po' a governare con Alfano, Formigoni e Giovanardi, non solo facendo finta di poter risolvere con costoro questioni quali, tanto per dire, la corruzione, la giustizia e i diritti civili, ma guardando a loro come novelli Pericle a cui consegnare il timone di una destra europeista, finalmente liberata da Berlusconi. Questa è la sinistra che, all'improvviso, dopo anni di vanagloriosa ostentazione di diversità rispetto agli altri, scopre che le primarie non sono più opportune perché, motivazione ufficiale, riducono a pura mercificazione elettorale e leaderistica ciò che dovrebbe essere un vero scontro sui contenuti. Forse il problema è un altro ed è che lo strumento delle primarie è stato utilizzato a uso e consumo di sempre più floridi e numerosi capibastone, capaci di premiare la fedeltà acritica e promuovere utili idioti. Ma, francamente, se un ricercatore scoprisse il vaccino contro l'Aids e poi usasse tutto il prototipo per farsi il bidet, dareste la colpa al vaccino o al ricercatore? E forse, perdonatemi se tocco un tasto dolente, per la prima volta il candidato più accreditato (e sponsorizzato) per la vittoria non è quello designato. Le primarie sono, per così dire, sfuggite di mano: vanno bene se acclamano con gioia e tripudio colui che la dirigenza ha indicato come il migliore e non se, al contrario, sulla base dei sondaggi e di abili trasformismi, portano da un'altra parte una buona fetta della dirigenza stessa. Forse il problema è a monte.
Questa è la sinistra che si appella, ancora, al voto utile. E, ancora, si atteggia a unica depositaria della verità storica, in quanto erede di una tradizione che le attribuisce i crismi dell'auctoritas. Una tradizione che, non gli altri, ma questa dirigenza ha gettato al vento, prendendo da essa solo ciò che era rigorosamente da scartare, come la disciplina di partito (senza un partito), i meccanismi cooptativi e l'élitarismo da egemonia culturale (senza l'egemonia culturale).

Domenica prossima andrò a votare Civati, anche contro questa logica arrogante e meschina. Ma soprattutto perché ritengo che il voto sia sempre utile quando nasce da una riflessione attenta e da un'analisi critica della realtà che ci circonda. E mi sentirò straordinariamente utile, perché contribuirò, nel mio piccolo, alla costruzione di un partito diverso da quello che abbiamo visto finora, un partito orientato davvero a sinistra, senza incrostazioni di potere, senza timidezza, senza ambiguità, senza fraintendimenti, senza paura di scontentare qualcuno (che non ci voterà mai, tra l'altro), senza subalternità. Un partito che finalmente affronti a muso duro la crisi democratica che ci investe in Italia e in Europa e che sappia trovare nuove strade per la rappresentanza, perché non esiste male peggiore per una democrazia che abbandonare altissime percentuali di elettori, lasciandoli in preda alla disperazione sociale e alla mancanza di punti di riferimento politici. E voterò Civati perché credo che il Civoti non sia solo un gioco di parole, ma una linea d'azione ben precisa, che fa della collettività e della mobilitazione cognitiva il proprio credo. Voterò Civati perché temi come l'ambiente, la cultura, il lavoro, l'istruzione e i diritti civili non possono essere affrontati né con superficialità né con l'ipocrisia di chi incarna la continuità con una classe dirigente disastrosa, che ha abbandonato gli elettori, per rinchiudersi nelle strategie di palazzo, tra le intercapedini della sussistenza e della rendita di posizione, impermeabile ai cambiamenti e al rinnovamento della società. Incapace di fare ciò un politico dovrebbe saper fare meglio: ascoltare.

Domenica andrò a votare Civati perché il ruolo della sinistra è quello di cambiare lo status quo e i rapporti di forza. Sarà un voto utile, perché so dove andrà a finire e cosa ne faremo. Siamo all'inizio di una lunga storia. Non finisce l'8. Inizia il 9.