Sarà la seconda, sarà
la terza, sarà ancora la prima. In ogni caso, la nostra Repubblica
tanto bene non sta. È notizia di ieri, ma non fa granché notizia,
l'apprendistato di Marina Berlusconi: studia per succedere al padre,
che, come sappiamo, si trova, come dire?, impegnato su più fronti e
potrebbe avere qualche illegittimo impedimento nei mesi a venire. Una
successione dinastica in piena regola.
Vedete, ciò che mi
colpisce non è tanto il fatto in sé, cioè che il nostro Redentore
voglia compiere questo passaggio di consegne. In fondo la dialettica
Padre/Figlio e Padre/Figlia è solo la riproposizione in salsa rosa
di altri evangelici rapporti. Lodevole. Che non si dica che è
maschilista. Lui alle donne ha sempre pensato. Ciò che davvero mi
colpisce è l'immagine che lui e i suoi hanno dell'elettorato
italiano: insomma, se si procede con questa operazione si dà per
scontato che un passaggio di consegne di tipo dinastico possa
comunque trovare una buona fetta di approvazione tra i cittadini del
bel paese. Il consenso, così interpretato, è estensivo, dal padre
alla figlia, e non più semplicemente personalistico. Una dottrina
eschilea al contrario: le gesta e le imprese dei padri ricadono sui
figli e sul ghenos. Niente male.
Un dio collerico e
vendicativo, più del Dio veterotestamentario, alberga nelle fila dei
rivoluzionari nostrani. Paradossale e rivelatrice, in tal senso, la
notizia del veto posto dal Grillo berciante alla consultazione,
rigorosamente virtuale (in tutti i sensi), in merito all'offerta di
Marino (ohibò, kasta!) rivolta ai Cinque Stelle romani di far parte
attivamente della giunta comunale. Una mossa, quella del neosindaco
di Roma, che, per inciso, ha tanto da dire ai dirigenti nazionali del
Pd, a coloro che hanno individuato nell'ottusità, nell'opportunismo
e nella malafede del comico crinito i migliori argomenti per fare ciò
che da sempre progettano di fare. Tu chiamala se vuoi
complementarità.
Ciò non toglie nulla
ovviamente alla mostruosità di un modello di (non) partito, nel
quale una democrazia diretta inattuabile nei fatti e nella storia
assurge a modello di organizzazione interna ideale ma, al contempo,
il dispotismo più becero e totalizzante viene praticato con la
disinvoltura di chi beve un bicchier d'acqua. La questione è solo
capire quando il nostro alter-Silvius farà frequentare al nipote il
corso intensivo di “assolutismo ed epurazione” presso
l'università telematica Casaleggio & Travaglio.
Di certo non si ride
dall'altra parte, se è vero che l'unico partito ormai rimasto in
Italia è troppo impegnato a dire di essere l'unico partito ormai
rimasto in Italia. Nel frattempo però, mentre si stigmatizza
giustamente il personalismo degli altri schieramenti, sfugge il
dettaglio che il Pd ha sostituito il personalismo con i personalismi.
Che, se non è peggio, di certo è una complicazione poco funzionale.
Correnti in cui i riposizionamenti funzionali all'autoconservazione e
alla rendite personali sono la regola, la vivacità di pensiero e la
dialettica formativa sono annullate, le critiche e il dissenso sono
tenuti a bada dallo spettro del sempre più abusato, travisato e
obsoleto principio del centralismo democratico. Alla fine, prima o
poi, si apriranno le danze del congresso. E sarà il consueto
florilegio di brutture, giochini di potere grandi e piccoli e
meccanismi cooptativi ingiustificabili. Sarà il trionfo dei
rottamatori a braccetto con i rottamandi e i rottamati. Il guaio è
che da lì, dal congresso, passano le sorti del centrosinistra
italiano e del Paese intero. Una responsabilità che davvero faccio
fatica a lasciare a questa nostra élite intellettuale.
Il futuro è dietro
l'angolo. Non è plurale, non è democratico e non cognitivo, nel
senso barchiano del termine. Se qualcuno, magari non trino, vuol
cambiarlo sul serio batta un colpo.