domenica 10 novembre 2013

Non prendiamocela con Renzi



Un ritornello gaiamente cantilenato e divulgato come la più inoppugnabile delle verità dice che il Pd è l'unico partito rimasto in Italia, plurale, vivo, intessuto di discussione libera e, in alcuni casi, eterodossa. Mettiamoci d'accordo però: se vogliamo usare questo spot come mero motto propagandistico, ci posso anche stare. Però si avvertano tutti i militanti e i simpatizzanti che solo di campagna pubblicitaria si tratta; non ci credano davvero. Perché purtroppo non è così. E non lo dico con leggerezza, né, tanto meno, con soddisfazione. Ma con profonda delusione e grave sconforto.
Lo stesso ritornello abusato di cui sopra impone un pensiero altrettanto distorto: con Renzi avremo un partito padronale, nel quale i militanti saranno pressoché ridotti al silenzio, svuotati delle loro funzioni di elaborazione politica e di influenza sulle decisioni della dirigenza. In tre parole, strumenti del leader. Scusatemi, signori, e perdonate il mio eccesso di sincerità e fors'anche di cinismo, ma questo processo, che si immagina come repentino e automatico dopo l'elezione di Renzi alla segreteria del Pd, è in corso da molti anni e ha individuato nella figura del sindaco di Firenze la propaggine più coerente e allineata.
Abbiamo stigmatizzato Renzi per le sue presunte simpatie destrorse e per il suo culto spinto della personalità, senza accorgerci che dentro il Pd le simpatie destrorse e il culto delle personalità sono prassi così ben attestate che neanche ci si fa più caso. In questo senso l'ascesa dell'ex Margherita non può che essere intesa come normale processo di derivazione deterministica. Non è stato Renzi a farsi propugnatore della bicamerale con il primo Berlusconi, non è stato Renzi a sostenere insieme a lui il governo Monti, non è stato Renzi a contribuire, grazie alle numerose assenze, all'approvazione dello scudo fiscale, non è stato Renzi in prima persona ad avallare queste nostre lodatissime larghe intese. Che sono strette, di orizzonte culturale e di prospettiva, ma lunghe, lunghissime. E, paradossalmente, vivono alla giornata. In tutte queste occasioni, e nelle mille altre che non ho citato, era presente, eccome, l'attuale e sempiterna dirigenza, di stampo quanto mai oligarchico, del Pd, che ha anche il coraggio di intestarsi battaglie culturali e di rinnovamento, una parte a spingere il carro del segretario in pectore e una parte a spingere quello di chi di questa dirigenza costituisce il rappresentante ultimo.
Caliamo la maschera, per cortesia. Renzi è il frutto di quel trentennio liberista e di quel ventennio berlusconiano che il maggior partito della sinistra italiana non solo non ha saputo contrastare, non costruendo mai un'alternativa credibile e allettante per i nostri concittadini, ma ha concretamente favorito nelle sue manifestazioni più becere. Diamo un'occhiata alle realtà locali: circoli ridotti al silenzio, abbandonati, senza un coordinamento politico, senza più neanche la capacità di elaborare critiche, proposte, visioni del mondo differenti da quelle che la dirigenza, da sempre, cala dall'alto. Quale grado di incidenza ha la politica dal basso? In che misura prende parte alle decisioni che si prendono, non dico a Roma, ma nelle province, nei comuni, nelle nostre federazioni? Quale grado di autonomia ha rispetto al volere del notabile di turno? La realtà è che, già da molti anni, la nostra dirigenza intende la militanza e i circoli solo come bassa manovalanza per le feste e come comitati di sostegno personalistico. In questo processo va avanti chi si è mostrato più fedele e meglio ha saputo canalizzare le forze delle persone, convincerle, nonostante le delusioni e le frustrazioni, che vale ancora la pena sforzarsi, rimetterci tempo e risorse economiche, per un ideale più alto. Che nel migliore dei casi corrisponde al mantenimento delle posizioni verticistiche dei dirigenti e dei feudatari a cui si risponde. Rapporti solo fiduciari, venati di cecità fideistica, acriticità, acquiescenza. Anche grazie a noi prosperano fallimenti e cattiva politica. E Renzi in tutto questo c'entra al contempo tantissimo e pochissimo. Renzi, per così dire, semplifica il processo e abbandona l'ottimismo di chi, come me e molti altri, ritiene che il partito debba essere un'altra cosa e debba essere un luogo in cui si mettono a confronto le competenze di tutti e si elabora, dal basso, una strategia per trovare le contromisure ai problemi che la società, specialmente quella attuale, individualistica come mai nella storia, ci pone di fronte. Riduce il partito a struttura al servizio suo. Ma non lo dice per primo. E il partito così com'è, da molti anni, è al servizio di molti. Molti che poi si scontrano tra di loro: per ragioni non certo nobili.
Rendiamocene conto e reagiamo. Perché nessuno ha la verità in tasca e men che meno coloro che ci governano. E perché contare, e non contarsi, è una precondizione per stare in una comunità, di qualunque natura essa sia. Figuriamoci se si tratta di un partito.

Non è Renzi che dobbiamo combattere, ma il Renzi che è dentro tutti noi. E c'è da molto tempo. Da molto prima di Renzi.