Un ritornello gaiamente
cantilenato e divulgato come la più inoppugnabile delle verità dice
che il Pd è l'unico partito rimasto in Italia, plurale, vivo,
intessuto di discussione libera e, in alcuni casi, eterodossa.
Mettiamoci d'accordo però: se vogliamo usare questo spot come mero
motto propagandistico, ci posso anche stare. Però si avvertano tutti
i militanti e i simpatizzanti che solo di campagna pubblicitaria si
tratta; non ci credano davvero. Perché purtroppo non è così. E non
lo dico con leggerezza, né, tanto meno, con soddisfazione. Ma con
profonda delusione e grave sconforto.
Lo stesso ritornello
abusato di cui sopra impone un pensiero altrettanto distorto: con
Renzi avremo un partito padronale, nel quale i militanti saranno
pressoché ridotti al silenzio, svuotati delle loro funzioni di
elaborazione politica e di influenza sulle decisioni della dirigenza.
In tre parole, strumenti del leader. Scusatemi, signori, e perdonate
il mio eccesso di sincerità e fors'anche di cinismo, ma questo
processo, che si immagina come repentino e automatico dopo l'elezione
di Renzi alla segreteria del Pd, è in corso da molti anni e ha
individuato nella figura del sindaco di Firenze la propaggine più
coerente e allineata.
Abbiamo stigmatizzato
Renzi per le sue presunte simpatie destrorse e per il suo culto
spinto della personalità, senza accorgerci che dentro il Pd le
simpatie destrorse e il culto delle personalità sono prassi così
ben attestate che neanche ci si fa più caso. In questo senso
l'ascesa dell'ex Margherita non può che essere intesa come normale
processo di derivazione deterministica. Non è stato Renzi a farsi
propugnatore della bicamerale con il primo Berlusconi, non è stato
Renzi a sostenere insieme a lui il governo Monti, non è stato Renzi a
contribuire, grazie alle numerose assenze, all'approvazione dello
scudo fiscale, non è stato Renzi in prima persona ad avallare queste
nostre lodatissime larghe intese. Che sono strette, di orizzonte
culturale e di prospettiva, ma lunghe, lunghissime. E,
paradossalmente, vivono alla giornata. In tutte queste occasioni, e
nelle mille altre che non ho citato, era presente, eccome, l'attuale
e sempiterna dirigenza, di stampo quanto mai oligarchico, del Pd, che
ha anche il coraggio di intestarsi battaglie culturali e di
rinnovamento, una parte a spingere il carro del segretario in
pectore e una parte a spingere quello di chi di questa dirigenza
costituisce il rappresentante ultimo.
Caliamo la maschera, per
cortesia. Renzi è il frutto di quel trentennio liberista e di quel
ventennio berlusconiano che il maggior partito della sinistra
italiana non solo non ha saputo contrastare, non costruendo mai
un'alternativa credibile e allettante per i nostri concittadini, ma
ha concretamente favorito nelle sue manifestazioni più becere. Diamo
un'occhiata alle realtà locali: circoli ridotti al silenzio,
abbandonati, senza un coordinamento politico, senza più neanche la
capacità di elaborare critiche, proposte, visioni del mondo
differenti da quelle che la dirigenza, da sempre, cala dall'alto.
Quale grado di incidenza ha la politica dal basso? In che misura
prende parte alle decisioni che si prendono, non dico a Roma, ma
nelle province, nei comuni, nelle nostre federazioni? Quale grado di
autonomia ha rispetto al volere del notabile di turno? La realtà è
che, già da molti anni, la nostra dirigenza intende la militanza e i
circoli solo come bassa manovalanza per le feste e come comitati di
sostegno personalistico. In questo processo va avanti chi si è
mostrato più fedele e meglio ha saputo canalizzare le forze delle
persone, convincerle, nonostante le delusioni e le frustrazioni, che
vale ancora la pena sforzarsi, rimetterci tempo e risorse economiche,
per un ideale più alto. Che nel migliore dei casi corrisponde al
mantenimento delle posizioni verticistiche dei dirigenti e dei
feudatari a cui si risponde. Rapporti solo fiduciari, venati di
cecità fideistica, acriticità, acquiescenza. Anche grazie a noi
prosperano fallimenti e cattiva politica. E Renzi in tutto questo
c'entra al contempo tantissimo e pochissimo. Renzi, per così dire,
semplifica il processo e abbandona l'ottimismo di chi, come me e
molti altri, ritiene che il partito debba essere un'altra cosa e
debba essere un luogo in cui si mettono a confronto le competenze di
tutti e si elabora, dal basso, una strategia per trovare le
contromisure ai problemi che la società, specialmente quella
attuale, individualistica come mai nella storia, ci pone di fronte.
Riduce il partito a struttura al servizio suo. Ma non lo dice per
primo. E il partito così com'è, da molti anni, è al servizio di
molti. Molti che poi si scontrano tra di loro: per ragioni non certo
nobili.
Rendiamocene conto e
reagiamo. Perché nessuno ha la verità in tasca e men che meno
coloro che ci governano. E perché contare, e non contarsi, è una
precondizione per stare in una comunità, di qualunque natura essa
sia. Figuriamoci se si tratta di un partito.
Non è Renzi che dobbiamo
combattere, ma il Renzi che è dentro tutti noi. E c'è da molto
tempo. Da molto prima di Renzi.