martedì 28 maggio 2013

Movimento di corpo


All'indomani della batosta elettorale subita dal Movimento 5 Stelle, leggo con uno strano misto di disgusto, ironia e rabbia l'ennesima avvilente “analisi” politica proposta dal guru Beppe. Evidentemente il comico che non fa più ridere, per serrare le fila, ha bisogno di continue contrapposizioni strumentali, prima imperniate sulla dicotomia casta/società civile, ora su quella poveracci piccoli imprenditori/dipendenti pubblici oziosi e pieni di agi, il tutto condito dalla solita litania del complotto dei media e dei poteri forti. Se Grillo fosse un buon politico, animato da buone intenzioni, saprebbe che gli stipendi dei dipendenti pubblici sono bloccati dal 2010 e che non si sbloccheranno di sicuro prima del 2014. Saprà l'allievo di Stiglitz cosa significa il blocco della contrattazione in termini di perdita di potere d'acquisto?
Ma, al di là del caso particolare, stupisce in seno al Movimento, o almeno nei suoi vertici, la totale mancanza di autocritica e di lucidità, qualità, queste, che li rendono ben degni della politica tradizionale che pretenderebbero di soppiantare.
Il sincero invito che faccio ai militanti grillini è di abbandonare la logica del “tanto peggio tanto meglio”, di smetterla di cercare un immaginario nemico comune e di litigare sulla diaria e finalmente di smarcarsi rispetto alla condotta autoritaria e padronale tenuta dal leader berciante, per iniziare davvero un percorso di maturazione politica, fatto di dialogo e di costruzione di un'alternativa vera, che possa permettersi anche di cogliere occasioni che potrebbero non capitare più.
E ce ne sarebbe davvero bisogno, cari amici grillini. Perché non so se ve ne siete accorti, ma pare che Letta ed Epifani siano al settimo cielo per questi risultati elettorali e, a sentir loro e gli organi di stampa più spaventati dal cambiamento, tipo il Corriere, le grandi intese sono state proprio un bell'affare. Pare inoltre che Nitto Palma stia presentando il nuovo ddl salva-Berlusconi e immaginerete anche voi l'imbarazzo del Pd, vero? Pare anche che i successi alla amministrative stiano giustificando una nuova ondata di involuzione antipartecipativa dentro al Pd, allo scopo di conservare e cristallizzare le solite rendite di posizione e la vecchia politica paternalistica e impositiva, che, correggetemi se sbaglio, di rado ha funzionato ultimamente.
Vi chiedo, amici, siete ancora convinti di poter cambiare qualcosa in questo quadro socio-politico che avete contribuito a creare? Perché il contributo di chi, tra di voi, è animato da buoni propositi e da un'idea di partecipazione ben diversa da quella vista finora e da quella che avete praticato sarebbe molto utile.

Altrimenti ci sono sempre scie chimiche, mooncup e microchip sottocutanei. È solo una questione di scelte.  

lunedì 27 maggio 2013

Le déserteur




Al di là dei risultati, il dato che più salta agli occhi in questa tornata elettorale è il drastico calo dell’affluenza, registrata tra l’altro, in questo caso, nell’entità amministrativa che è storicamente più sentita dai cittadini italiani. E ciò fa il paio con le ultime politiche e con le ultime Regionali. Insomma, chi doveva riportare al voto milioni e milioni di delusi ha fallito. Chi doveva evitare che si venisse a formare una sacca di insoddisfazione così estesa ha fallito prima e continua a fallire ora. Lo so che continuo a chiedere l’impossibile, ma non sarebbe giunta l’ora di mettere davvero in discussione la prassi partecipativa degli attuali organismi partitici? No perché questi dati qualche riflessione dovrebbero suscitarla.
Disertare le urne significa in primo luogo ritenere che il proprio contributo alla vita democratica della collettività sia inutile. Non so se sono chiare le implicazioni distruttive di questo assunto: una disaffezione così crescente verso le istituzioni e i loro rappresentanti è sintomo di un complessivo sfaldamento dell’intero gruppo sociale. Più banalmente, una schiera di persone si autoesclude dai meccanismi rappresentativi semplicemente perché non li ritiene rappresentativi. Terreno fertile per ideali autoritari, terrorismo, violenza.  Il quadro non migliora affatto se individuiamo nel disinteresse la causa di questa massiccia non partecipazione: la frantumazione della coscienza civica è parte attiva nel processo in quanto specchio di una società plurale nei bisogni ma individualistica nelle forme d’azione. In questa concezione della vita pubblica, l’attività politica è percepita solo come il trampolino per prospettive di carriera e non come elaborazione di proposte per il bene comune (vi ricorda qualcosa?).

Se la politica non ritrova questa dimensione, integrando, senza fagocitare, nei suoi processi il numero più alto possibile di persone, movimenti e associazioni e rendendoli parte attiva all’interno di un luogo di discussione finalizzato all’elaborazione di progetti concreti e di soluzioni al rialzo, i dati sono destinati a peggiorare. Il modello americano è dietro l’angolo. La crisi della rappresentanza non può essere l’alibi numero uno, ma lo stimolo a cambiare davvero lo stato delle cose. Ricordatevene quando i soliti noti imporranno di chiudere il congresso del Pd ai soli iscritti, e magari solo a quelli di vecchia data, e/o blatereranno sul successone del modello Lettalfano. Perché lo faranno. Su questo non ho dubbi.

martedì 21 maggio 2013

Manifesta incapacità


La mancata partecipazione del Pd, fatta eccezione per uno sparuto e intrepido drappello, rigorosamente non organizzato, alla manifestazione indetta dalla Fiom segna a mio avviso l'ennesima pagina da voltare in fretta nella non brillantissima storia del maggior partito di centrosinistra in Italia. La questione non è, come erroneamente è stato detto, aderire o non aderire alla piattaforma della Fiom, né, tanto meno, sancire o meno a tavolino un formale consenso. Il punto è mostrare la volontà di interloquire con un soggetto fondamentale come il sindacato di Landini, le cui proposte possono anche non essere condivise in toto, ma devono per lo meno entrare nel dibattito interno. Dimostrare di voler trovare anche insieme a lui soluzioni nuove nell'ambito della tutela dei lavoratori e delle politiche del lavoro.
Altrimenti finisce che il mondo dei sindacati diventa territorio di caccia di chi fino a poco tempo fa diceva che i sindacati andavano soppressi. E, come dovremmo sapere da un pezzo, potenziali temi forti del Pd si trasformano in reali battaglie (post) ideologiche dei grillini.
Evitare l'atteggiamento solito di opacità stantia e di ambiguità superficiale non è solo un fatto di bon ton, ma un kit di sopravvivenza nella società plurale, iniqua e fragile dal punto di vista ideologico in cui viviamo. E per fare ciò è necessario includere gli altri nei propri centri di discussione e aggiungere una sedia al tavolo dei lavori, perché si parli di contenuti e non di spartizioni di cariche. A giustificare le numerose assenze del Pd a questa manifestazione ma anche alle mille battaglie che avrebbe dovuto portare avanti e non ha fatto nel campo della tutela dei lavoratori e non solo non basta di certo il pretesto che chi sta al governo non scende in piazza a protestare.
Al Lingotto il Pd ha messo piede nel 2007 con il colletto bianco. Oggi è rimasto il colletto bianco, ma manca pure la camicia. Dopo blairismo, finta vocazione umanitaria, paternalismo, apparato, correntine, religione del Liberismo e comprensibili crisi di identità possiamo dire che il re è nudo e tutti lo indicano.
O il centrosinistra si riprende il suo spazio o qualcun altro lo occuperà. E non sarà indebitamente. Sarà per responsabilità e volontà chiare di chi lo ha perso.  

lunedì 20 maggio 2013

Fuori dal tunnel, ma non così



Chi pensa che dal tunnel in cui il Pd si è volutamente infilato, scontando drammaticamente tutte le sue contraddizioni, si esca con la disciplina di partito e con il principio di maggioranza semplicemente non ha compreso il significato dell'ultima consultazione elettorale e, più in generale, i cambiamenti occorsi negli ultimi anni. Quello che serve ora al Pd è una reale apertura alla società, ai suoi movimenti, alle sue tensioni, alle sue proposte, ai suoi quanto mai differenziati interessi.
Il Pd deve domandarsi finalmente cosa significhi oggi essere di sinistra: se analizzerà per bene la questione, credo, giungerà alla conclusione che essere di sinistra oggi significa costituire un luogo di discussione, di crescita, di responsabilizzazione e rappresentanza democratica ispirato ai concetti tradizionali della difesa dei più deboli, dell'equità e della giustizia sociale. Che è come dire che occorre ripensare tutto da zero. Non un partito che guardi a particolari classi o a particolari fasce d'età, ma un partito inclusivo, che metta a disposizione di tutti, e non solo militanti e iscritti, i propri spazi per favorire un'impostazione analitica capace di far crescere consapevolezza politica presso l'elettorato e legittimazione rispetto alle proposte elaborate, frutto di confronto serrato e di sintesi al rialzo. O si cambiano le regole del gioco e la base diventa parte attiva del processo (e gli strumenti partecipativi ci sono eccome) o non si ripartirà mai. Ora come ora un'oligarchia squalificata dalla storia delibera e impone la propria linea calandola dall'alto e atteggiandosi a élite intellettuale ontologicamente in grado di garantire il buon governo. Questa prassi ha fallito senza appello. E non ci rimborseranno certo le fusioni fredde, generatrici di pochezza propositiva e cautela non petita.
I mutamenti socio-economici, tecnologici e culturali avvenuti negli ultimi anni impongono nuovi sistemi di rappresentanza democratica. Ma occorrono volontà, lungimiranza e vera vocazione pubblica. Altrimenti troveremo sempre nell'antigrillismo, nell'antiberlusconismo, ormai solo teorico, questo, e nell'antiqualcuno le nostre ragioni costitutive, senza cogliere il vero problema.

lunedì 13 maggio 2013

Mnemotecnica per smemorati



Mi fanno un po' ridere, lo confesso, i richiami all'ordine di Letta ad Alfano e, in generale, ai suoi ministri. Come mi hanno fatto ridere le levate di scudi contro Nitto Palma e la Biancofiore, come se fosse sorprendente fare un governo col Pdl e scoprire che ci sono degli impresentabili. Intendiamoci, non è che non condivida l'ostilità a personaggi di questa caratura; mi stupisce lo stupore. Non ci si butta nel pozzo nero, sperando di uscirne con la faccia lavata. O sbaglio?
Era onestamente un'impresa non da poco resuscitare Berlusconi e, di conseguenza, il suo partito, ormai ridotto ai fedelissimi a orologeria. Eppure, straordinariamente efficace in questo, la strategia del Pd ha vinto tutte le avversità, sorvolando sui processi, sulle cene eleganti, sugli scudi fiscali, sui condoni edilizi, sui tagli alla scuola pubblica, sugli scandali dell'Aquila, sul Lodo Alfano (sempre lui), sulla Bossi-Fini, sugli attacchi all'articolo 18, su tutte le innumerevoli leggi ad personam, sui tagli alla sanità pubblica, sui tagli agli enti locali, sulle promesse mai mantenute, sulle promesse purtroppo mantenute, sulle iniquità fiscali e sulle infinite altre amenità che non posso elencare per ragioni di tempo e di spazio. 
Non parlo poi di cosa ha significato dal punto di vista socio-culturale il ventennio berlusconiano: dal trionfo dell'individualismo anti-etico, all'esaltazione della furbizia ladruncola e ladrona, passando per la scienza del fast-thought, dello slogan preconfezionato e della tv che pensa per te. Il significato dell'intesa Pd-Pdl è epocale e alla sua realizzazione non soggiace affatto l'urgenza di alcune questioni fondamentali (che c'è eccome e c'era anche prima), ma l'istanza autoconservativa di molti del Pd, trasversalmente per una volta, che vedono come il Babau una politica differente e di cambiamento. Cambiamento vero, non sbandierato e utilizzato a fini demagogici.
Poi all'Assemblea Nazionale si può anche andare e non dire nulla, fingendo di aver detto tutto, e si può andare a giustificare l'ingiustificabile nel nome del rispetto di quelle istituzioni mai così calpestate come hanno fatto e fanno gli attuali “alleati”. E si può anche tentare di serrare le fila e stringersi attorno a una manovrina di palazzo, sperando di far passare più tempo possibile prima del Congresso e limitare così il sentimento critico oggi tanto diffuso presso la base. Potranno passare anche trent'anni. Ho la memoria lunga. E non solo io. 

giovedì 9 maggio 2013

Frequentate frequenze



Non so se ve ne siete accorti ma la campagna elettorale, se per qualuno non è mai iniziata, per qualcun altro non è mai finita. Molto banalmente, basterebbe sintonizzarsi sui canali Mediaset per vedere l'invasione mediatica, particolarmente potente in questi giorni, di Berlusconi e i suoi sodali. Due giorni fa la D'Urso ha improvvisato un fine dibattito sull'IMU, stasera, da Del Debbio (l'ex opinionista di Studio Aperto col gatto in testa, per capirci) su Rete 4, Silvio in persona ha promesso in diretta di aiutare una coppia campana in difficoltà e una signora che, disperata, ha occupato una casa popolare e domenica in prima serata andrà in onda un programma significativamente intitolato “La guerra dei vent'anni. Ruby, ultimo atto”. Aspettiamo con ansia una resurrezione, magari Andreotti (io la butto lì), e una moltiplicazione di escort. Sabato poi si terrà l'ennesima manifestazione contro la magistratura in quel di Brescia. Magari avrà copertura televisiva totale.
Attenzione, il piano è chiarissimo e lo preconizzava Nanni Moretti ne “Il Caimano” ormai sette anni fa: attraverso una serie di “battaglie” popolari, come l'IMU, e slogan ad alta digeribilità, il nostro Priapo si propone di portare l'opinione pubblica dalla sua parte nell'impresa di delegittimare la magistratura, cioè uno dei tre poteri dello Stato, e salvare il posteriore. Non esattamente una novità, se la vogliamo dire tutta. Giova però mettere in evidenza che questa prassi mai veramente morta sta prendendo ulteriore vigore.
La novità vera è che stavolta il Pd si rende corresponsabile nella maniera più evidente e intollerabile. Con le proprie mani ha resuscitato un morto e lo ha rimesso nelle condizioni di contare qualcosa, addirittura giungendo all'imponderabile di costruire con lui (o per lui) una squadra di governo. Non dimentico il concorso di colpa di Beppe Grillo, sia chiaro. Ma l'esplosione del suo movimento è espressione delle ambiguità e delle irrisolte contraddizioni del maggior partito di centrosinistra. Lo stilicidio di voti, da sinistra, sarebbe palese anche a un bambino.

Pensare di formare un esecutivo di responsabilità con un personaggio di tal risma significa due cose: o che si crede davvero in una sua estemporanea e sorprendente conversione o che guardare a destra, e alla sua destra, piuttosto che a sinistra è più comodo e conveniente. Comunque sia, aspettiamoci l'apertura del Mar Rosso in diretta tv. Parafrasando uno che ha quasi vinto la morte, ce la siamo cercata.

Desideri e speranze per un partito che non c'è (ancora)


Sogno un partito in cui davvero uno vale uno. Non per “rincorrere i grillini”, come qualcuno spesso dice con disprezzo, ignorando che se i grillini esistono è perché troppi errori finora sono stati fatti da chi si trovava in posizione di potere. Sogno un partito in cui uno vale uno nel senso che non vorrei più sentire frasi come “io la base non la sento”. È l'ora di finirla con l'idea che a pensare per noi ci sono i dirigenti, gli unici che sono capaci di distinguere il bene dal male, mentre noi siamo una massa informe che, semplicemente, non capisce. 

Sogno un partito in cui non sia concepibile l'idea di acclamare Prodi al mattino per poi impallinarlo vigliaccamente al pomeriggio. Sogno un partito in cui non si debba andare a supplicare un uomo di 87 anni di farsi rieleggere perché altre soluzioni non ci sono. Sogno un partito in cui non si debba più sentire la frase “Rodotà non fa parte della mia cultura politica”, perché il partito che sogno è davvero un partito di sinistra e non ha paura di dirlo a voce alta. 
Sogno un partito che se entra in Parlamento con una coalizione poi non la distrugge perché c'è chi a Vendola preferisce Berlusconi; sogno un partito vero di sinistra che non ha paura della sinistra e che la smette di guardare al centro, a destra, in alto e in basso, ma a sinistra mai. 
Sogno un partito in cui chi sbaglia paga e non un partito in cui chi sbaglia va al governo mentre a pagarne le conseguenze siamo, come sempre, noi. Sogno un partito in cui la colpa degli errori commessi sia finalmente assunta da chi ce l'ha e non sia invece data ai giovani eletti che si tengono in contatto con i propri elettori, come è giusto che sia. È troppo facile scaricare il barile per fuggire dalle proprie responsabilità. Ah, la responsabilità: sogno un partito, e in generale un mondo intero, in cui sia ancora possibile ascoltare questa parola senza esserne disgustati. Perché ormai è stata svuotata di significato. Sogno un partito in cui, se un giorno si dice “responsabilità è cambiamento”, il giorno dopo non si dica “la responsabilità è andare al governo con il Pdl”. 
Nel partito che sogno, semplicemente, non si fa un governo con il Pdl e non si permette a personaggi folkloristici e dalla dubbia statura morale di inventare ogni giorno una nuova minaccia o un nuovo ricatto. Non si permette a gente come questa di influire sul mio futuro. 
È proprio per questo che sogno un partito che non ha paura di ammettere i propri sbagli. Un partito di cui i circoli siano il cuore pulsante, il luogo dell'incontro, del confronto e a volte anche dello scontro. Anche quello serve. Un partito in cui le persone siano davvero motivate e non guidate da invidie o da interessi particolari di carriera e poltrone. Sogno un partito meno autoreferenziale, in cui i dirigenti smettano di parlarsi addosso e inizino, finalmente, ad ascoltare anche chi sta fuori. In cui i dirigenti e i militanti non debbano seguire in modo acritico la linea di partito, perché quel tempo è finito. Bisogna essere liberi di dissentire e non giustificare sempre tutto, anche quello che giustificare proprio non si può. 
La prima volta che sono entrata in questo circolo, qualche anno fa, sono venuta a votare Ignazio Marino segretario; non so se qualcuno qui se lo ricorda, ma si dava agli elettori una molletta verde con sopra scritto: io ci tengo. Ecco, vorrei sapere se noi che siamo qui ci teniamo ancora. Perché se davvero ci teniamo, dobbiamo abbandonare le vecchie logiche e spalancare le porte senza paura di andare incontro a una rivoluzione. Perché il partito che sogno non è diviso in mille correnti. Il partito attuale è poco votato dai giovani, perché ai giovani non sa parlare: ai giovani poco importa di chi è ex-DC, ex Pci e chi più ne ha più ne metta: nel partito che sogno, tutti sono del PD e non c'è spazio per inutili rancori e vecchie ruggini. Nel partito che sogno non c'è bisogno di usare la parola “rottamazione”, perché tutti sono giovani, dentro. Nel partito che sogno le persone non hanno paura di dire quello che pensano perché altrimenti vengono tacciate di essere “renziane, bersaniane, lettiane, dalemiane o veltroniane” e allora poi non ci si parla più. In questo partito si ha il coraggio di dire che questo governo non va bene e che altre soluzioni dovevano essere trovate; in questo partito non ci si adegua solo perché “l'ha detto il partito e quindi è legge”. 
Sogno un partito in cui le decisioni non vengono calate dall'alto, ma in cui la base è attiva, attenta e propositiva. Un partito in cui il flusso di idee sia dal basso verso l'alto e non soltanto il contrario. 
Sogno un partito che non pensa a chiudere i congressi per mera volontà di autoconservazione, stravolgendo il termine “democratico” che pure è nel suo nome. Sogno un partito più aperto, che spalanchi le porte ai cittadini, che li coinvolga, che tenga in conto la loro opinione. Un partito con tanto coraggio. Il coraggio anche di cambiare tutto, perché così non va. 
Un partito così si potrebbe anche tornare a votarlo. Basterebbe sostituire alla parola “sogno” la parola “voglio” e darsi da fare perché accada davvero.

domenica 5 maggio 2013

La torre d'avorio




Trovo davvero inaccettabile che, dopo la sconcertante sequela di disastri compiuti nelle ultime settimane e, più in generale, negli ultimi vent'anni dalla dirigenza del Pd, si parli di chiudere il congresso e, finanche, di procedere con un'operazione simile, mutatis mutandis, a quella del 2009 quando Franceschini fu reggente e poi candidato alla segreteria. Ma stavolta senza primarie.
Per come si è evoluta la situazione appare più chiaro del sole che l'istinto di autoconservazione stia decisamente prendendo il sopravvento su una lettura onesta e realistica della realtà, che, come minimo, consideri la disapprovazione profonda che viene dalla base, o per lo meno da quella parte di essa che non si è fatta convincere dagli afflati autoassolutori di certi dirigenti, locali e non. Pensavamo davvero di aver chiuso i conti con quella politica paternalistica che impone se stessa al proprio elettorato, forte di una superiorità morale e strategica. Molto supposta, nel nostro caso, laddove il termine va inteso anche come sostantivo. Con la scusa sempreverde dello stato di emergenza, i dirigenti Pd si chiudono a riccio nella torre d'avorio del conservatorismo e di quella vecchia (mala) politica sconfitta sonoramente alle ultime elezioni. Lo strumento privilegiato torna a essere la disciplina di partito, a emblema di una sconfitta politica, intellettuale, identitaria e culturale.

Tra un piano di involuzione e l'altro c'è poi spazio per lo stupore: Biancofiore ricollocata, minacce del Pdl in caso di ius soli, Berlusconi che si propone come presidente di quella superba e incostituzionale perversità che si chiama Convenzione per le riforme. Sorpresa generalizzata. Come se affidare il governo e consegnare il Paese a queste persone avesse mai significato qualcosa di diverso e più nobile. Che si sprechino pure i paragoni con la Resistenza e Badoglio e il compromesso storico. Da tali esimi exempla scaturirono l'8 settembre e il CAF e la relativa impotenza del PCI, tanto per capirci.
Se vogliamo azzardare un confronto, restiamo sull'8 settembre. La confusione, la rabbia, lo sbando di quel giorno sono anche i nostri.