Ha ragione Civati. E lo
dico senza nascondere un enorme disagio. Perché avallare la sua
scelta di votare la fiducia a un governo nel quale non riconosco il
benché minimo segno di cambiamento rispetto a quello precedente, già
tante volte, ed evidentemente a ragione, criticato, è roba da
disturbo bipolare. Ed è, dirò di più, un governo anti-strategico,
nel quale si assume tutte le responsabilità la persona che più ha
saputo negli ultimi venti anni, dopo Berlusconi, catalizzare
l'attenzione mediatica e popolare e ottenere consenso. E ancora,
questo governo mi allarma perché è la prosecuzione di un processo
che, avviato con Monti (ma, dentro il Pd, da molto prima), si è
fatto strutturale e istituzionalmente riconosciuto. Difetta, direi in
via ontologica, di prospettiva politica, di condizioni esigibili, di
clausole e patti chiari. Pertanto, in questo senso, la mia sfiducia
non può che essere massima.
Eppure non ritengo la
decisione di Civati un errore. In primis perché i luoghi
deliberativi del partito, se sono stati precedentemente consultati,
vanno rispettati. Forse anche quando, come in questo caso, ciò che
vi si decide è frutto di accordini preventivamente stipulati pro
domo alicuius o, ben che vada
(ma si fa per dire), di sfrontate strategie volte al recupero di un
controllo interno perduto drammaticamente sul campo. Ma soprattutto
per una ragione molto pratica: non votare la fiducia significherebbe
espulsione dal partito e ciò comporterebbe, con tutta probabilità,
la vanificazione di tanti sforzi fatti nella prospettiva di
contaminare con i nostri contenuti un soggetto politico sempre meno
corrispondente al suo statuto e dalla natura sempre più ambigua e
spostata a destra. Il progetto resta lo stesso, anche in circostanze
sinceramente dolorose come queste: restituire al Pd un'identità e un
orizzonte, chiaramente connotati a sinistra, che superino finalmente
i giochi di potere autoreferenziali e la difesa delle rendite di
posizione. Ambizione forse arrogante, lo so.
La
scelta non è di comodo: sarebbe stato molto più conveniente
allinearsi, votare con la maggioranza in direzione e contrattare
qualche posto nella squadra di governo. E non è certo incoerente
rispetto alle intenzioni sempre palesate. Anche se non mi stupisce
che in un partito la cui larga maggioranza, cuperliana e renziana
insieme, ha tradito clamorosamente il mandato elettorale, smentendo
programmi e propositi, i confini definitori tendano a essere molto
labili. Soprattutto quando si tratta di coerenza.
Nel
frattempo, come ampiamente preventivabile, Civati finisce tra
l'incudine e il martello, e cioè tra coloro che, all'esterno, gli
rimproverano irresolutezza e indecisione e coloro che, all'interno,
gli contestano la vocazione minoritaria e la ricerca di visibilità
personale. In entrambe le posizioni scorgo allarmato i segni,
peraltro già ampiamente visibili, della disgregazione del
ragionamento politico. Chi sta fuori e vorrebbe vedere Civati fuori
pone una pregiudiziale sul Pd, a prescindere da tutto: e lo fa con la
protervia di chi ha deciso che le cose non abbiano sfumature,
assumendo come criterio di corresponsabilità un voto di fiducia o la
mera appartenenza a un gruppo parlamentare, e senza aver mai mosso un
dito per costruire un progetto comune, almeno su questioni sulle
quali ci sarebbe convergenza programmatica. Ma vivere di rendita, una
rendita assai esigua peraltro, sulle inadeguatezze del maggior
partito della sinistra italiana è certamente più comodo che tentare
di contaminarlo positivamente.
I
più motivati pongono come argomento la costruzione di una nuova
sinistra, inclusiva, trasparente, aperta, risoluta. Tema che mi
affascina molto, lo ammetto. Perché ritengo anch'io che ci sia molto
spazio alla sinistra del Pd, tra delusi, smarriti, arrabbiati. Ma,
prima dello spazio, occorre un progetto e prima ancora la volontà di
costruirlo. E mi pare che manchi l'una e, di conseguenza, anche
l'altro.
Chi
critica da dentro o non ha colto né la clamorosa inversione di
marcia effettuata da tutta la dirigenza sul tema del sostegno a
Letta, vero e proprio tabù la cui violazione veniva riservata
all'eretico Civati fino a due mesi e mezzo fa, né il pericoloso
precedente costituito da un cambio di governo deciso in un organo
tutto interno al maggior partito di maggioranza, come se le
istituzioni ne fossero una naturale propaggine, o non intende, per le
più svariate, e detestabili, ragioni. Per carità, va tutto bene.
Ma, prima di sentire delle critiche, vorrei assistere a una
consultazione referendaria aperta a tutti e a un'assemblea intesa
come luogo di discussione trasparente, preliminari a una qualunque
decisione importante di una qualunque delle sensibilità del partito.
Perché onestamente dispiace che i voti degli elettori siano sempre
utilizzati a fini personali. E dispiace pure che molti di loro si
facciano raggirare senza colpo ferire. Perché molti invece se ne
vanno; e poi succede che vincono gli altri o chi perde meno consensi
degli altri.
Non
lasciamo insomma. Nonostante tutto. Ma raddoppiamo. Lavoreremo per il
partito che doveva essere e non è stato. E per quello che dovrà
essere. Puntando sulla trasparenza, sull'etica pubblica, sulla
partecipazione, sulla sostenibilità ambientale, sulla riduzione dei
costi sul lavoro, sui diritti civili, su un'Europa diversa da quella
del rigore e dei dogmi economici, sull'uguaglianza, sulla centralità
della formazione e della cultura, sulla ricostruzione di una
collettività. Senza affrontare globalmente tutti questi temi, non si
uscirà da una crisi che, dovremmo averlo capito tutti, è
strutturale.