Vezzali, Cammarelle, Schwazer, Pellegrini, Minguzzi, Quintavalle, Cainero, Tagliariol: volti da Olimpiade, con un medaglione pesante pesante attaccato al collo. Sono volti di gioia e fatica, di anni di allenamenti e sudore, lontani dalle luci dei palcoscenici. Per tre settimane sono i loro metalli a brillare, prima che gli italiani ingrati e immemori li ripieghino per bene e li posino di nuovo nel cassetto del dimenticatoio. Cederanno il passo agli spropositi dei calciatori, capaci di regalarci – e sia detto così, en passant – un match col Camerun indecente e un quarto di finale perso 3-2 nonostante la superiorità numerica per più di un’ora e due rigori a favore contro un modestissimo Belgio.
Un pensiero va a quel che poteva essere. La Sensini, le ragazze delle ritmica, Coppolino e Morandi, il fioretto a squadre femminile: parliamo di argenti, bronzi e legni; e ingiustizie. Lungi da me dar adito al più tipico vittimismo all’italiana; per non scadere nella retorica banale diciamo allora che il fattore casa ha giocato un ruolo decisivo. Più importante degli atleti stessi, in molti casi. Ma c’era da aspettarselo, così come avrebbe dovuto aspettarselo anche il CIO, incauto nella scelta della sede olimpica.
La Cina ha indossato il suo abito migliore, nascondendo i buchi e gli strappi sotto toppe invisibili. Lo sport ha inserito la modalità “panem et circenses”, stordendo di gioia un pubblico locale sportivo e festante, quasi conscio dell’ora di libertà concessa, come uno studente che si gode l’ultimo giorno di vacanza, prima del rientro a scuola. I trionfi degli atleti, meritati e non, hanno suggellato il tutto. A dimostrazione della strada giusta da imboccare, quella della fedeltà al regime, alla fatica, al proprio popolo, alla propria politica. Come se un oro o un successo sportivo potesse insinuarsi negli interstizi degli avvenimenti recenti e non, le vite strozzate, le libertà negate, le verità oscurate, per rimuoverli dalla coscienza collettiva.
La parte del moralizzatore indegno non mi compete; ma il sentir parlare di bambini strappati alle proprie famiglie per essere rinchiusi in palestra 18 ore al giorno non fa bene a nessuno. Un paese che può contare sull’apporto di un miliardo e trecentomila anime può permettersi anche di rispettare i diritti umani e contemporaneamente rimanere ai vertici del medagliere olimpico.
Ma la Cina è così. E le cerimonie di apertura e chiusura sono parse dei moniti, rivolti a tutto il mondo: “siamo tanti, forti, disposti a tutto”. Le forme geometriche e l’attenti dei soldati hanno ricordato molto l’Europa di non molti anni fa; un’Europa che tanti, troppi, rimpiangono. E la nostra risposta – noi democratici, occidentali, civili; le etichette lambiscono appena la realtà senza raggiungerla – dev’essere qualitativa, non quantitativa. Ci vogliono investimenti, forze, giovani da sfruttare. Nello sport come nell’economia. Se la risposta agli stracciatissimi prezzi cinesi saranno i tagli al personale e le decurtazioni di stipendio andremo incontro a una fine certa.
Ma in fin dei conti parlavamo di sport. Parlavamo di Phelps e Bolt, delle imprese epiche che rimarranno in copertina, dietro ai mille flash dei fotografi impazziti; dietro alle luci straordinarie degli stadi e delle piscine, sotto i giochi pirotecnici, stupendi e abbaglianti, dello stato cinese. Eppure il cruccio mi rimane. Una questione di stomaco forse. Una sensazione di teatrino, di ombre cinesi, capaci di rapire, ammaliare, divertire.
Lo sport è pur sempre sport, e non può cambiare le cose, dicono. Tuttavia una sua funzione l’ha avuta: ci ha mostrato una realtà, dietro molte finzioni. Che gli scintillii vari allora non ci accechino del tutto, questo l’auspicio. Il Tibet resta là, testimonianza ingombrante delle violenze e dei soprusi insabbiati. Monito agonizzante rivolto a tutti. Segno impresso sui corpi di molte persone da una potenza mitopoietica, costruttrice di mondi effimeri e irreali. Per nascondere la sabbia sotto il tappeto.