martedì 25 febbraio 2014

Tra l'incudine e il martello (senza falce)


Ha ragione Civati. E lo dico senza nascondere un enorme disagio. Perché avallare la sua scelta di votare la fiducia a un governo nel quale non riconosco il benché minimo segno di cambiamento rispetto a quello precedente, già tante volte, ed evidentemente a ragione, criticato, è roba da disturbo bipolare. Ed è, dirò di più, un governo anti-strategico, nel quale si assume tutte le responsabilità la persona che più ha saputo negli ultimi venti anni, dopo Berlusconi, catalizzare l'attenzione mediatica e popolare e ottenere consenso. E ancora, questo governo mi allarma perché è la prosecuzione di un processo che, avviato con Monti (ma, dentro il Pd, da molto prima), si è fatto strutturale e istituzionalmente riconosciuto. Difetta, direi in via ontologica, di prospettiva politica, di condizioni esigibili, di clausole e patti chiari. Pertanto, in questo senso, la mia sfiducia non può che essere massima.
Eppure non ritengo la decisione di Civati un errore. In primis perché i luoghi deliberativi del partito, se sono stati precedentemente consultati, vanno rispettati. Forse anche quando, come in questo caso, ciò che vi si decide è frutto di accordini preventivamente stipulati pro domo alicuius o, ben che vada (ma si fa per dire), di sfrontate strategie volte al recupero di un controllo interno perduto drammaticamente sul campo. Ma soprattutto per una ragione molto pratica: non votare la fiducia significherebbe espulsione dal partito e ciò comporterebbe, con tutta probabilità, la vanificazione di tanti sforzi fatti nella prospettiva di contaminare con i nostri contenuti un soggetto politico sempre meno corrispondente al suo statuto e dalla natura sempre più ambigua e spostata a destra. Il progetto resta lo stesso, anche in circostanze sinceramente dolorose come queste: restituire al Pd un'identità e un orizzonte, chiaramente connotati a sinistra, che superino finalmente i giochi di potere autoreferenziali e la difesa delle rendite di posizione. Ambizione forse arrogante, lo so.
La scelta non è di comodo: sarebbe stato molto più conveniente allinearsi, votare con la maggioranza in direzione e contrattare qualche posto nella squadra di governo. E non è certo incoerente rispetto alle intenzioni sempre palesate. Anche se non mi stupisce che in un partito la cui larga maggioranza, cuperliana e renziana insieme, ha tradito clamorosamente il mandato elettorale, smentendo programmi e propositi, i confini definitori tendano a essere molto labili. Soprattutto quando si tratta di coerenza.
Nel frattempo, come ampiamente preventivabile, Civati finisce tra l'incudine e il martello, e cioè tra coloro che, all'esterno, gli rimproverano irresolutezza e indecisione e coloro che, all'interno, gli contestano la vocazione minoritaria e la ricerca di visibilità personale. In entrambe le posizioni scorgo allarmato i segni, peraltro già ampiamente visibili, della disgregazione del ragionamento politico. Chi sta fuori e vorrebbe vedere Civati fuori pone una pregiudiziale sul Pd, a prescindere da tutto: e lo fa con la protervia di chi ha deciso che le cose non abbiano sfumature, assumendo come criterio di corresponsabilità un voto di fiducia o la mera appartenenza a un gruppo parlamentare, e senza aver mai mosso un dito per costruire un progetto comune, almeno su questioni sulle quali ci sarebbe convergenza programmatica. Ma vivere di rendita, una rendita assai esigua peraltro, sulle inadeguatezze del maggior partito della sinistra italiana è certamente più comodo che tentare di contaminarlo positivamente.
I più motivati pongono come argomento la costruzione di una nuova sinistra, inclusiva, trasparente, aperta, risoluta. Tema che mi affascina molto, lo ammetto. Perché ritengo anch'io che ci sia molto spazio alla sinistra del Pd, tra delusi, smarriti, arrabbiati. Ma, prima dello spazio, occorre un progetto e prima ancora la volontà di costruirlo. E mi pare che manchi l'una e, di conseguenza, anche l'altro.
Chi critica da dentro o non ha colto né la clamorosa inversione di marcia effettuata da tutta la dirigenza sul tema del sostegno a Letta, vero e proprio tabù la cui violazione veniva riservata all'eretico Civati fino a due mesi e mezzo fa, né il pericoloso precedente costituito da un cambio di governo deciso in un organo tutto interno al maggior partito di maggioranza, come se le istituzioni ne fossero una naturale propaggine, o non intende, per le più svariate, e detestabili, ragioni. Per carità, va tutto bene. Ma, prima di sentire delle critiche, vorrei assistere a una consultazione referendaria aperta a tutti e a un'assemblea intesa come luogo di discussione trasparente, preliminari a una qualunque decisione importante di una qualunque delle sensibilità del partito. Perché onestamente dispiace che i voti degli elettori siano sempre utilizzati a fini personali. E dispiace pure che molti di loro si facciano raggirare senza colpo ferire. Perché molti invece se ne vanno; e poi succede che vincono gli altri o chi perde meno consensi degli altri.

Non lasciamo insomma. Nonostante tutto. Ma raddoppiamo. Lavoreremo per il partito che doveva essere e non è stato. E per quello che dovrà essere. Puntando sulla trasparenza, sull'etica pubblica, sulla partecipazione, sulla sostenibilità ambientale, sulla riduzione dei costi sul lavoro, sui diritti civili, su un'Europa diversa da quella del rigore e dei dogmi economici, sull'uguaglianza, sulla centralità della formazione e della cultura, sulla ricostruzione di una collettività. Senza affrontare globalmente tutti questi temi, non si uscirà da una crisi che, dovremmo averlo capito tutti, è strutturale.  

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