Vent'anni da un video
all'altro. Vent'anni per tornare al simbolo di Forza Italia, mentre
l'Italia boccheggia travolta dalla crisi economica, dalla pochezza
culturale, dal malaffare, dal malcostume, dall'incoraggiamento
all'illegalità e dal dileggio costante delle istituzioni. Berlusconi
appare ringiovanito nell'aspetto ma appesantito nella fedina penale:
la sentenza di condanna a quattro anni di reclusione passata in
giudicato è un medaglietta al disonore che neanche i cavillatori
professionisti alla sua corte sono riusciti a evitargli. A coronare
l'evento si sprecano i titoli trionfalistici sui giornali stranieri,
che prima e meglio di noi hanno compreso le qualità del nostro ex
(ex?) Presidente del consiglio ma troppe volte l'hanno dato per
morto, sbagliandosi di grosso.
La sentenza della
Cassazione sancisce definitivamente l'ignominia di uno Stato il cui
primo ministro per un totale di dieci lunghi anni, nonché attuale
rappresentante al Senato, è un frodatore conclamato. Come se non
bastasse, a ciò si aggiunge la tenuta dell'attuale governo, imposto,
a detta dei sostenitori, dall'urgenza della crisi economica e dalla
necessità di tenere a bada i mercati e, a detta dei più fantasiosi
teorici, dalla strategia di uscita dal berlusconismo insieme a
Berlusconi, con annesse scommesse sull'evoluzione politica della
destra italiana in senso europeo.
E infatti, ampiamente
prevedibili, arrivano le richieste di grazia al Presidente della
Repubblica, le trattative per tramutare l'affaire in un novello caso
Sallusti, le minacce alla tenuta del governo e i dubbi sulla
decadenza del Cavaliere. C'è persino chi, sottraendosi alla retorica
della pacificazione, parla di “guerra civile”. E poi,
naturalmente, l'immancabile farsa dell'aizzatore di popoli che
rassicura gli alleati e, al contempo, tra un piantino e un altro,
spara cannonate sulla nostra democrazia e sulla nostra costituzione,
parole eversive che dovrebbero inorridire chiunque non provi
disprezzo per le istituzioni.
Ma queste sono cose che
sapevamo già. Le sapevamo anche prima del 25 febbraio scorso e prima
della formazione di questo governo. Le sapevamo anche quando coloro
che andavano sbraitando che un governo con Brunetta e Cicchitto non
era un'ipotesi contemplata si sono affannati a sperticarsi in
articolate argomentazioni sul senso di responsabilità e sulle grandi
prospettive che una grosse koalition avrebbe aperto, relegando temi
quali i diritti civili e le misure sociali e per il lavoro al
cosiddetto benaltrismo. Le sappiamo a maggior ragione adesso.
Berlusconi era
politicamente morto nel novembre del 2011. Il Pd l'ha resuscitato con
una campagna elettorale disastrosa prima e l'ha sostanzialmente
rimesso al suo posto poi, ignorando il messaggio forte e chiaro che
veniva dagli elettori, i quali avevano affermato chiaramente che
tutto avrebbero voluto vedere fuorché una riedizione del governo
Monti senza tecnici, riversando su Grillo aspettative che lo stesso
Grillo, per scelta deliberata e non solo per incapacità, non ha mai
voluto soddisfare. Chi ha lavorato da sempre alla soluzione delle
larghe intese è stato così compensato degli sforzi che neanche ha
dovuto fare. Che fosse un'idea stupida, nella sostanza noncurante,
checché se ne dica, delle sorti del Paese e puramente conservativa,
era chiaro a chiunque lo volesse vedere. È una soluzione che ha
fatto male: al Pd, alla credibilità già ai minimi storici della
nostra classe dirigente e delle nostre istituzioni, al Paese.
La sentenza, a cui
evidentemente non solo Ghedini sperava di non arrivare mai, pone un
problema politico di difficile gestione: forse non basteranno neanche
più le clamorose arrampicate sugli specchi di cui le nostre
oligarchie intellettuali ci hanno deliziato. O forse dovremmo
semplicemente rassegnarci all'idea che farci dettare l'agenda di
governo da un pregiudicato sia davvero il male minore. Chissà quali
preoccupazioni avranno ora all'estero: la stabilità di un governo
italiano capace di rinviare qualunque decisione alle calende greche o
il fatto che un frodatore del fisco faccia la parte del leone al suo
interno?
Ma, come si è già
detto, queste cose le sapevamo già. E la realtà è che non è più
credibile chi nel Pd, ora, prova a fare la voce grossa. Non siamo
pronti al voto, non siamo pronti a porre condizioni, non siamo pronti
ad affrontare le sfide che il Paese ci ha chiamato ad affrontare
qualche mese fa. Figurarsi se siamo in grado di dire la verità e
cioè che il governo Letta è il miglior salvacondotto possibile per
Berlusconi e che la sentenza lo condanna dal punto di vista
giudiziario ma non da quello politico. Per quello dovevano bastare le
scorse elezioni, quando sei milioni di persone hanno deciso di votare
qualcos'altro o di non votare proprio. E, tanto meno, siamo pronti a
proporci come un'alternativa solida e affidabile ai partiti padronali
e demagogici, continuamente puntati al ribasso culturale, civile,
morale. Non siamo pronti a voltare pagina perché in troppi non lo
vogliono fare e perché non se ne può neppure discutere. Non siamo
disposti a modificare forme di rappresentanza che nessuno sente più
come soddisfacenti, né siamo disposti a rimetterci in gioco
accettando la sfida della partecipazione vera, attiva e consapevole.
Eppure sono necessità
stringenti; sono, queste sì, urgenze reali. L'Italia e l'Europa
hanno un bisogno inderogabile di discontinuità, di cambiamento e di
sinistra. Ma davvero non hanno bisogno di questo Pd.
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