mercoledì 21 maggio 2014

Balle belle se han cinque stelle


Non mi pare strano che un disoccupato o un inoccupato senza grande capacità di elaborazione politica si animi vedendo Grillo sbraitare in tv o da un palco. È un misto di rabbia, frustrazione, speranza di cambiamento, sfiducia, intemperanza. Non mi stupisce e non mi indigna.
Ciò che mi stupisce e mi indigna è la deliberata attività di manipolazione messa in atto, senza scrupoli né senso del pudore, dallo stesso Grillo e dal suo Movimento. La “teoria” è semplicissima: il Paese è stato vessato da anni di malgoverno e la classe politica deve essere mandata a casa e umiliata nella sua totalità. A sostituirla deve essere una forza nuova (eh sì), fresca, pulita, immacolata, composta da cittadini qualunque animati da mero spirito filantropico. Sottesa è la logica manichea per cui chiunque vesta la casacca di un partito è un colluso, un untore, addirittura, da stasera, un mafioso. Chiunque. Da una parte il bene, dall'altra il male, nella più banale delle teodicee da strada. E così si convincono le persone, i potenziali elettori, che la soluzione a tutti i problemi è a portata di mano e che non occorre neanche sforzarsi. Basta applicare la Legge morale e divina e il gioco è fatto.
Poi magari il disoccupato scopre che non è proprio così. O magari qualcuno glielo spiega. E forse capisce che l'opposizione grillina in Parlamento è utile solo al mantenimento dello status quo e possibilmente all'incremento dell'elettorato; che la disinformazione non è patrimonio culturale solo dei giornali di partito e delle tv berlusconiane ma anche della rete e dalla stampa “libera”; che pensare di essere “oltre Hitler” e aprire processi sommari su internet per politici e giornalisti siano proposte poco ragionevoli e anche un tantinello venate di autoritarismo; che, nel mondo delle sfumature tonali, dipingere la realtà con il monocolore non è solo un errore, è malafede; che la rinuncia ai rimborsi non è una rinuncia se non si hanno i requisiti minimi per percepirli; che la politica è fatta di contributi volontari ma anche di contributi pubblici, perché sono garanzia di pluralismo e democrazia; che l'evasione fiscale non è un'esclusiva per anime belle, ma che difficilmente chi si è fatto pagare in nero milioni di euro sarà poi molto credibile in materia; che le balle non sono diverse se sono targate Pd, Forza Italia o M5S, ma restano balle; che il bozzetto di genere per cui a un'Italia buona fatta di cittadini comuni, onesti e integerrimi si contrappone l'Italia della Casta e delle auto blu è un ritrattino buono a tenere a freno la coscienza di tanti ma certo non a cambiare le cose; che non essere né di destra né di sinistra vuol dire essere di destra.
Sì, perché la realtà, mi dispiace, è un po' più complicata di così: la crisi ha cause storiche e politiche ben definibili e rintracciabili in un Occidente che si è gettato in pasto al liberismo più selvaggio, nel nome della sacrosanctitas del divo mercato. In questo contesto in Italia abbiamo dato sfogo alle forme più estrose di connivenza tra concorrenza darwiniana e monopolio, in una commistione di interessi e intrecci tra pubblico e privato in cui si sono infilati tutti, dal banchiere fino all'ultimo dei dipendenti. Mangiando, chi più chi meno, certo, come se non ci fosse un domani. Ma il domani è arrivato, con una tavola imbandita dalla quale non cadono più né briciole né avanzi. Si indigna oggi chi doveva indignarsi ieri, o l'altro ieri; e si indigna pure molto male, affiggendo su una bacheca virtuale la lista di proscrizione.
Quello che non sento, mai, dalle parti di Sant'Ilario è un progetto, un'idea, una proposta. Sento, in compenso, illazioni, piccoli sabotaggi, meschinità, diffamazione e un'immensa operazione ipnotica, volta a solleticare e assecondare le paure e i sentimenti più sordidi delle persone, attraverso una comunicazione distorta, costantemente artefatta e studiata con scienza grottescamente criminale.

Se devo scegliere, grazie, mi tengo Giolitti.

martedì 25 febbraio 2014

Tra l'incudine e il martello (senza falce)


Ha ragione Civati. E lo dico senza nascondere un enorme disagio. Perché avallare la sua scelta di votare la fiducia a un governo nel quale non riconosco il benché minimo segno di cambiamento rispetto a quello precedente, già tante volte, ed evidentemente a ragione, criticato, è roba da disturbo bipolare. Ed è, dirò di più, un governo anti-strategico, nel quale si assume tutte le responsabilità la persona che più ha saputo negli ultimi venti anni, dopo Berlusconi, catalizzare l'attenzione mediatica e popolare e ottenere consenso. E ancora, questo governo mi allarma perché è la prosecuzione di un processo che, avviato con Monti (ma, dentro il Pd, da molto prima), si è fatto strutturale e istituzionalmente riconosciuto. Difetta, direi in via ontologica, di prospettiva politica, di condizioni esigibili, di clausole e patti chiari. Pertanto, in questo senso, la mia sfiducia non può che essere massima.
Eppure non ritengo la decisione di Civati un errore. In primis perché i luoghi deliberativi del partito, se sono stati precedentemente consultati, vanno rispettati. Forse anche quando, come in questo caso, ciò che vi si decide è frutto di accordini preventivamente stipulati pro domo alicuius o, ben che vada (ma si fa per dire), di sfrontate strategie volte al recupero di un controllo interno perduto drammaticamente sul campo. Ma soprattutto per una ragione molto pratica: non votare la fiducia significherebbe espulsione dal partito e ciò comporterebbe, con tutta probabilità, la vanificazione di tanti sforzi fatti nella prospettiva di contaminare con i nostri contenuti un soggetto politico sempre meno corrispondente al suo statuto e dalla natura sempre più ambigua e spostata a destra. Il progetto resta lo stesso, anche in circostanze sinceramente dolorose come queste: restituire al Pd un'identità e un orizzonte, chiaramente connotati a sinistra, che superino finalmente i giochi di potere autoreferenziali e la difesa delle rendite di posizione. Ambizione forse arrogante, lo so.
La scelta non è di comodo: sarebbe stato molto più conveniente allinearsi, votare con la maggioranza in direzione e contrattare qualche posto nella squadra di governo. E non è certo incoerente rispetto alle intenzioni sempre palesate. Anche se non mi stupisce che in un partito la cui larga maggioranza, cuperliana e renziana insieme, ha tradito clamorosamente il mandato elettorale, smentendo programmi e propositi, i confini definitori tendano a essere molto labili. Soprattutto quando si tratta di coerenza.
Nel frattempo, come ampiamente preventivabile, Civati finisce tra l'incudine e il martello, e cioè tra coloro che, all'esterno, gli rimproverano irresolutezza e indecisione e coloro che, all'interno, gli contestano la vocazione minoritaria e la ricerca di visibilità personale. In entrambe le posizioni scorgo allarmato i segni, peraltro già ampiamente visibili, della disgregazione del ragionamento politico. Chi sta fuori e vorrebbe vedere Civati fuori pone una pregiudiziale sul Pd, a prescindere da tutto: e lo fa con la protervia di chi ha deciso che le cose non abbiano sfumature, assumendo come criterio di corresponsabilità un voto di fiducia o la mera appartenenza a un gruppo parlamentare, e senza aver mai mosso un dito per costruire un progetto comune, almeno su questioni sulle quali ci sarebbe convergenza programmatica. Ma vivere di rendita, una rendita assai esigua peraltro, sulle inadeguatezze del maggior partito della sinistra italiana è certamente più comodo che tentare di contaminarlo positivamente.
I più motivati pongono come argomento la costruzione di una nuova sinistra, inclusiva, trasparente, aperta, risoluta. Tema che mi affascina molto, lo ammetto. Perché ritengo anch'io che ci sia molto spazio alla sinistra del Pd, tra delusi, smarriti, arrabbiati. Ma, prima dello spazio, occorre un progetto e prima ancora la volontà di costruirlo. E mi pare che manchi l'una e, di conseguenza, anche l'altro.
Chi critica da dentro o non ha colto né la clamorosa inversione di marcia effettuata da tutta la dirigenza sul tema del sostegno a Letta, vero e proprio tabù la cui violazione veniva riservata all'eretico Civati fino a due mesi e mezzo fa, né il pericoloso precedente costituito da un cambio di governo deciso in un organo tutto interno al maggior partito di maggioranza, come se le istituzioni ne fossero una naturale propaggine, o non intende, per le più svariate, e detestabili, ragioni. Per carità, va tutto bene. Ma, prima di sentire delle critiche, vorrei assistere a una consultazione referendaria aperta a tutti e a un'assemblea intesa come luogo di discussione trasparente, preliminari a una qualunque decisione importante di una qualunque delle sensibilità del partito. Perché onestamente dispiace che i voti degli elettori siano sempre utilizzati a fini personali. E dispiace pure che molti di loro si facciano raggirare senza colpo ferire. Perché molti invece se ne vanno; e poi succede che vincono gli altri o chi perde meno consensi degli altri.

Non lasciamo insomma. Nonostante tutto. Ma raddoppiamo. Lavoreremo per il partito che doveva essere e non è stato. E per quello che dovrà essere. Puntando sulla trasparenza, sull'etica pubblica, sulla partecipazione, sulla sostenibilità ambientale, sulla riduzione dei costi sul lavoro, sui diritti civili, su un'Europa diversa da quella del rigore e dei dogmi economici, sull'uguaglianza, sulla centralità della formazione e della cultura, sulla ricostruzione di una collettività. Senza affrontare globalmente tutti questi temi, non si uscirà da una crisi che, dovremmo averlo capito tutti, è strutturale.  

venerdì 13 dicembre 2013

Tra vecchio e nuovo




Da un'intervista - pubblicata da Repubblica - ad Andrea Zunino, uno dei leader del movimento dei forconi, apprendiamo, tra le altre amenità, che il modello politico a cui in Italia si dovrebbe guardare è il premier ungherese Viktor Orbàn, che un ristretto gruppo di banchieri ebrei tiene tutto il mondo alla catena e che Hitler, che era “probabilmente pazzo”, ha reagito con l'antisemitismo per vendetta nei confronti di finanziatori americani che gli avevano voltato le spalle. Il tutto condito dalla specialità della casa: i politici sono tutti uguali, le camere devono essere sciolte e il governo si deve dimettere per lasciare il posto a un esecutivo di “solidarietà”, formato da giuristi e costituzionalisti.
Ora, non credo di andare sotto la taccia di allarmista se dico che trovo considerazioni di questo tipo oltremodo preoccupanti. La prima parola che mi è venuta in mente è stata “deliranti”. Ma mi sono corretto. Il delirio è uno stato allucinatorio e confusionale, nel quale il giudizio sulla realtà risulta alterato. In questo caso non siamo davanti a un pazzo psicotico: siamo davanti a un cittadino italiano che, seguito da molti altri, ritiene che la via d'uscita dalla crisi e dalle inefficienze di uno stato obiettivamente mal governato sia una svolta autoritaria e nazionalista, sollecitata da una protesta portata avanti con sistemi intimidatori, populisti e squadristi. Questo leggo in queste dichiarazioni e negli eventi di cronaca. E francamente provo una profonda inquietudine.

Beninteso, è del tutto contraria alle mie intenzioni la volontà di difendere l'operato di governi a volte deludenti e il più delle volte disastrosi, e, in generale, una classe dirigente incompetente, furbetta, affarista e quasi sempre interessata a difendere, con tutti i mezzi possibili, le proprie rendite di posizione. Ma sono anche convinto che non è giocando a freccette con le istituzioni del nostro paese che troveremo la soluzione. Né, tanto meno, la troveremo pensando che il nostro sistema sia organizzato in maniera dicotomica, con una netta e distinguibile linea di demarcazione tra la cosiddetta “società civile”, composta di nobili e magnanimi lavoratori sottopagati, e una nebulosa ed eterogenea “casta”, di cui conosciamo solo una caratteristica dirimente: “ruba”.
Ecco di fronte a semplificazioni di questo tipo mi vengono i brividi. Non solo perché le approssimazioni, se possono essere utili a scopo meramente didattico, quando vengono utilizzate in via assiomatica danno luogo a distorsioni del reale, così profonde da compromettere un intero sistema culturale e sociale; ma perché questi ragionamenti sono agli antipodi di quella che è la proposta politica nella quale credo fermamente e che cercherò di portare avanti in ogni occasione. Proposta che è poi, in una parola, quella della collettività, e cioè quella di una strategia volta a riconnettere i pezzi di un tessuto sociale disperso, per i danni causati da un sistema liberistico profondamente sperequativo e darwiniano, attraverso lo strumento della mobilitazione cognitiva. Solo con la partecipazione, declinata in tutti i suoi possibili sensi, dalla militanza in partiti al semplice atto di informarsi, passando per l'attivazione di strumenti volti alla socializzazione preliminare (e non a giochi fatti) e aperta di decisioni che spettano all'amministrazione, si può recuperare un corpo, nel quale il vuoto di rappresentanza o la rassegnazione del “meno peggio” non siano i caratteri distintivi. E i sentimenti di esclusione e inappartenenza siano marginalizzati il più possibile.
In un normale stato democratico nessuno deve sentirsi estraneo né al diritto di esprimere la propria opinione, nei limiti imposti dalla nostra Costituzione, e di proporre soluzioni che portino benefici alla comunità, né, però, al dovere di assumersi le responsabilità, sempre con gradazioni differenti, di eventuali fallimenti e scelte sbagliate. La nostra pagina nuova dovrebbe essere all'insegna di una grande presa d'atto: una gestione oligarchica della vita politica italiana è contraria a tutti i principi e le norme della vita sociale, ma così è anche quel sistema sottocutaneo e che, nondimeno, vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, che ha consentito che le cose prendessero questa piega. Un sistema costituito da corruzione, clientelismo, nepotismo, infiltrazioni mafiose, favori agli amici, corsie preferenziali, evasione fiscale. Tutto nel nome di un motto mai ammesso ma sempre evidente, auto-manifesto: se sono più furbo prevalgo. Se invertiamo i fattori e ammettiamo che l'essere parte di una comunità implica l'attenzione verso gli altri soggetti di questa stessa comunità e implica, altresì, che la buona politica nasca dal concentrare tutte le forze in un impegno di lettura critica del reale, forse abbiamo delle speranze.
Ecco perché mi spaventano tanto le prese di posizione di Zunino, ma con lui tanti altri che siedono anche in Parlamento: attraverso di esse filtra il messaggio contrario, e cioè che destabilizzando le istituzioni e invocando una rivoluzione in apparenza iconoclasta, che preveda la sostituzione indiscriminata degli interpreti, ma che in realtà lascia inalterati i meccanismi che hanno permesso a quegli interpreti di prosperare, si possa in qualche modo uscire magicamente dalla crisi. Non funziona così. Non andrà così. Vivremo ancora le stesse situazioni se utilizzeremo ancora questi strumenti di lettura della realtà. E assisteremo a giovani cinquantenni che, evidentemente presumendo di essere stati calati da Marte l'altro ieri, urleranno la propria frustrazione e il proprio bisogno di violenza repressa, al contempo autoassolvendosi, deresponsabilizzandosi. Magari dopo anni di disinteresse verso la società, la politica, la cultura.
Non stupisce che il passo successivo, già tentato, sia il rogo dei libri, l'annientamento degli strumenti di comprensione del reale.


Perché sarà anche vero che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Ma questa farsa mi sembra già fin troppo tragica. E non lo è da ieri.

mercoledì 4 dicembre 2013

Il voto utile


È paradossale sentire appelli al voto utile da parte di chi ha avallato lo slogan più antiestetico, diseducativo e patetico che conosca. Mi riferisco naturalmente alla campagna elettorale per le elezioni del febbraio 2013, culminata con l'argomento che meglio rappresenta appieno il senso della povertà culturale della proposta politica: votateci perché gli altri sono peggio.
È paradossale, dicevo, sentire questi appelli. Un po' perché mi pare che la cosa assuma i tratti del patologico: ma, si sa, noi di sinistra, e in particolare noi del Pd, siamo straordinariamente capaci di interrogarci per decadi sui nostri sbagli, ripetendoli puntualmente e periodicamente. Un po' perché dovremmo finirla di propinare alle persone ricette meno che mediocri, facendo finta che non se ne possano trovare di migliori. E un po' perché chiamare di nuovo a raccolta le truppe contro un nemico comune, facendo finta che anche Civati giochi nella sua squadra, è, prima ancora che una scorrettezza, una mossa triste. Da basso impero. Di un impero basso da sempre.
Eh sì perché poi, stringi stringi, il problema è la credibilità. E se per anni hai predicato tutto il contrario di ciò che hai fatto, finisce che gli appelli al voto utile suonino come appelli al voto inutile, esattamente come i reiterati richiami a comportamenti responsabili paiono sempre più incitamenti a comportamenti scapestrati e criminali. Così l'impressione è che non resti altro che invocare un voto di sinistra, buono a sedare gli animi di quegli iscritti nostalgici del Pci, ma stancamente, come la ritualità consueta di chi ha vissuto di questi espedienti e continuerà a farlo, sfruttando le illusioni di una militanza troppo generosa, disposta a rinnovare l'utopia della svolta a sinistra con la dirigenza che nella storia della sinistra italiana ha più di tutte guardato (e non solo guardato) a destra. Evidentemente da queste parti strabismo e torcicollo non sono un problema.
Questa è la sinistra che ha problemi a convivere con Renzi, ma non ne ha neanche un po' a governare con Alfano, Formigoni e Giovanardi, non solo facendo finta di poter risolvere con costoro questioni quali, tanto per dire, la corruzione, la giustizia e i diritti civili, ma guardando a loro come novelli Pericle a cui consegnare il timone di una destra europeista, finalmente liberata da Berlusconi. Questa è la sinistra che, all'improvviso, dopo anni di vanagloriosa ostentazione di diversità rispetto agli altri, scopre che le primarie non sono più opportune perché, motivazione ufficiale, riducono a pura mercificazione elettorale e leaderistica ciò che dovrebbe essere un vero scontro sui contenuti. Forse il problema è un altro ed è che lo strumento delle primarie è stato utilizzato a uso e consumo di sempre più floridi e numerosi capibastone, capaci di premiare la fedeltà acritica e promuovere utili idioti. Ma, francamente, se un ricercatore scoprisse il vaccino contro l'Aids e poi usasse tutto il prototipo per farsi il bidet, dareste la colpa al vaccino o al ricercatore? E forse, perdonatemi se tocco un tasto dolente, per la prima volta il candidato più accreditato (e sponsorizzato) per la vittoria non è quello designato. Le primarie sono, per così dire, sfuggite di mano: vanno bene se acclamano con gioia e tripudio colui che la dirigenza ha indicato come il migliore e non se, al contrario, sulla base dei sondaggi e di abili trasformismi, portano da un'altra parte una buona fetta della dirigenza stessa. Forse il problema è a monte.
Questa è la sinistra che si appella, ancora, al voto utile. E, ancora, si atteggia a unica depositaria della verità storica, in quanto erede di una tradizione che le attribuisce i crismi dell'auctoritas. Una tradizione che, non gli altri, ma questa dirigenza ha gettato al vento, prendendo da essa solo ciò che era rigorosamente da scartare, come la disciplina di partito (senza un partito), i meccanismi cooptativi e l'élitarismo da egemonia culturale (senza l'egemonia culturale).

Domenica prossima andrò a votare Civati, anche contro questa logica arrogante e meschina. Ma soprattutto perché ritengo che il voto sia sempre utile quando nasce da una riflessione attenta e da un'analisi critica della realtà che ci circonda. E mi sentirò straordinariamente utile, perché contribuirò, nel mio piccolo, alla costruzione di un partito diverso da quello che abbiamo visto finora, un partito orientato davvero a sinistra, senza incrostazioni di potere, senza timidezza, senza ambiguità, senza fraintendimenti, senza paura di scontentare qualcuno (che non ci voterà mai, tra l'altro), senza subalternità. Un partito che finalmente affronti a muso duro la crisi democratica che ci investe in Italia e in Europa e che sappia trovare nuove strade per la rappresentanza, perché non esiste male peggiore per una democrazia che abbandonare altissime percentuali di elettori, lasciandoli in preda alla disperazione sociale e alla mancanza di punti di riferimento politici. E voterò Civati perché credo che il Civoti non sia solo un gioco di parole, ma una linea d'azione ben precisa, che fa della collettività e della mobilitazione cognitiva il proprio credo. Voterò Civati perché temi come l'ambiente, la cultura, il lavoro, l'istruzione e i diritti civili non possono essere affrontati né con superficialità né con l'ipocrisia di chi incarna la continuità con una classe dirigente disastrosa, che ha abbandonato gli elettori, per rinchiudersi nelle strategie di palazzo, tra le intercapedini della sussistenza e della rendita di posizione, impermeabile ai cambiamenti e al rinnovamento della società. Incapace di fare ciò un politico dovrebbe saper fare meglio: ascoltare.

Domenica andrò a votare Civati perché il ruolo della sinistra è quello di cambiare lo status quo e i rapporti di forza. Sarà un voto utile, perché so dove andrà a finire e cosa ne faremo. Siamo all'inizio di una lunga storia. Non finisce l'8. Inizia il 9. 

domenica 10 novembre 2013

Non prendiamocela con Renzi



Un ritornello gaiamente cantilenato e divulgato come la più inoppugnabile delle verità dice che il Pd è l'unico partito rimasto in Italia, plurale, vivo, intessuto di discussione libera e, in alcuni casi, eterodossa. Mettiamoci d'accordo però: se vogliamo usare questo spot come mero motto propagandistico, ci posso anche stare. Però si avvertano tutti i militanti e i simpatizzanti che solo di campagna pubblicitaria si tratta; non ci credano davvero. Perché purtroppo non è così. E non lo dico con leggerezza, né, tanto meno, con soddisfazione. Ma con profonda delusione e grave sconforto.
Lo stesso ritornello abusato di cui sopra impone un pensiero altrettanto distorto: con Renzi avremo un partito padronale, nel quale i militanti saranno pressoché ridotti al silenzio, svuotati delle loro funzioni di elaborazione politica e di influenza sulle decisioni della dirigenza. In tre parole, strumenti del leader. Scusatemi, signori, e perdonate il mio eccesso di sincerità e fors'anche di cinismo, ma questo processo, che si immagina come repentino e automatico dopo l'elezione di Renzi alla segreteria del Pd, è in corso da molti anni e ha individuato nella figura del sindaco di Firenze la propaggine più coerente e allineata.
Abbiamo stigmatizzato Renzi per le sue presunte simpatie destrorse e per il suo culto spinto della personalità, senza accorgerci che dentro il Pd le simpatie destrorse e il culto delle personalità sono prassi così ben attestate che neanche ci si fa più caso. In questo senso l'ascesa dell'ex Margherita non può che essere intesa come normale processo di derivazione deterministica. Non è stato Renzi a farsi propugnatore della bicamerale con il primo Berlusconi, non è stato Renzi a sostenere insieme a lui il governo Monti, non è stato Renzi a contribuire, grazie alle numerose assenze, all'approvazione dello scudo fiscale, non è stato Renzi in prima persona ad avallare queste nostre lodatissime larghe intese. Che sono strette, di orizzonte culturale e di prospettiva, ma lunghe, lunghissime. E, paradossalmente, vivono alla giornata. In tutte queste occasioni, e nelle mille altre che non ho citato, era presente, eccome, l'attuale e sempiterna dirigenza, di stampo quanto mai oligarchico, del Pd, che ha anche il coraggio di intestarsi battaglie culturali e di rinnovamento, una parte a spingere il carro del segretario in pectore e una parte a spingere quello di chi di questa dirigenza costituisce il rappresentante ultimo.
Caliamo la maschera, per cortesia. Renzi è il frutto di quel trentennio liberista e di quel ventennio berlusconiano che il maggior partito della sinistra italiana non solo non ha saputo contrastare, non costruendo mai un'alternativa credibile e allettante per i nostri concittadini, ma ha concretamente favorito nelle sue manifestazioni più becere. Diamo un'occhiata alle realtà locali: circoli ridotti al silenzio, abbandonati, senza un coordinamento politico, senza più neanche la capacità di elaborare critiche, proposte, visioni del mondo differenti da quelle che la dirigenza, da sempre, cala dall'alto. Quale grado di incidenza ha la politica dal basso? In che misura prende parte alle decisioni che si prendono, non dico a Roma, ma nelle province, nei comuni, nelle nostre federazioni? Quale grado di autonomia ha rispetto al volere del notabile di turno? La realtà è che, già da molti anni, la nostra dirigenza intende la militanza e i circoli solo come bassa manovalanza per le feste e come comitati di sostegno personalistico. In questo processo va avanti chi si è mostrato più fedele e meglio ha saputo canalizzare le forze delle persone, convincerle, nonostante le delusioni e le frustrazioni, che vale ancora la pena sforzarsi, rimetterci tempo e risorse economiche, per un ideale più alto. Che nel migliore dei casi corrisponde al mantenimento delle posizioni verticistiche dei dirigenti e dei feudatari a cui si risponde. Rapporti solo fiduciari, venati di cecità fideistica, acriticità, acquiescenza. Anche grazie a noi prosperano fallimenti e cattiva politica. E Renzi in tutto questo c'entra al contempo tantissimo e pochissimo. Renzi, per così dire, semplifica il processo e abbandona l'ottimismo di chi, come me e molti altri, ritiene che il partito debba essere un'altra cosa e debba essere un luogo in cui si mettono a confronto le competenze di tutti e si elabora, dal basso, una strategia per trovare le contromisure ai problemi che la società, specialmente quella attuale, individualistica come mai nella storia, ci pone di fronte. Riduce il partito a struttura al servizio suo. Ma non lo dice per primo. E il partito così com'è, da molti anni, è al servizio di molti. Molti che poi si scontrano tra di loro: per ragioni non certo nobili.
Rendiamocene conto e reagiamo. Perché nessuno ha la verità in tasca e men che meno coloro che ci governano. E perché contare, e non contarsi, è una precondizione per stare in una comunità, di qualunque natura essa sia. Figuriamoci se si tratta di un partito.

Non è Renzi che dobbiamo combattere, ma il Renzi che è dentro tutti noi. E c'è da molto tempo. Da molto prima di Renzi.  

martedì 29 ottobre 2013

Con soluzione di continuità



Che si vada nella direzione corretta lo dimostra la calcolata e deliberata indifferenza di Vendola. Civati ha individuato nella sinistra dispersa, delusa, derelitta e smarrita il proprio destinatario principale. Ha scelto di rappresentare una parte ben definita, chiaramente e senza ipocrisie: perché la politica è fatta di scelte ed è parziale, anche nell'inclusività. Se si sceglie un destinatario principale non è per sfavorire gli altri, ma perché si ritiene che, attraverso quella scelta, tutti possano trarre beneficio. Questione di gusti. Questione di convinzioni. Il problema è averne almeno una, ogni tanto.
Ebbene, tra chi ha deciso di non decidere, fingendo di parlare a chiunque, indipendentemente dai contenuti e dagli interessi, e riproponendo il cliché abusato del salvatore della patria, intriso di tinte messianiche e del culto dell'eroe, e tra chi ha deciso di proseguire sulla via della socialdemocrazia di facciata, con competenza anche reale, per l'amor del cielo, ma anche con un carico ingombrante e fallimentare di un'intera classe dirigente prevalentemente reduce dal Pci e che da quella tradizione ha volontariamente cacciato Marx e Gramsci, conservandoli in via residuale e a livello catacretico, per tenersi le strategie dirigiste e le pratiche cooptative, senza sintesi, senza discussione, senza elaborazione e senz'anima, ho scelto, con molti altri, di aderire a una terza via che si propone di far saltare i meccanismi fallimentari che ci hanno condotto nel ventennio berlusconiano e nel trentennio liberista. Una via che ritiene che l'avvitamento sul primo e sul secondo non possano costituire una via d'uscita rispetto alla crisi nazionale e globale. Una via che si prefissa come obiettivo il cambiamento radicale della classe dirigente attuale, non nel nome di un rinnovamento generazionale, ma nel nome di una rivoluzione culturale e di pensiero. Una via che ha definito le proprie linee programmatiche, e con esse le persone a cui si rivolge, e che stabilisce una volta per tutte che il ruolo ontologico della sinistra è quello di modificare i rapporti di potere e lo status quo, contro le sperequazioni e le ingiustizie sociali. Per il consolidamento dello stato delle cose esiste già una casa comoda comoda, con pareti solidissime e, coerentemente con la propria strategia in campo ambientale, con cemento armato un po' dappertutto: ha una collocazione chiarissima e un compito semplice e si chiama destra. E andrebbe lasciata agli altri.
Poi c'è la politica: derelitta, autoreferenziale, insufficiente, storicamente sconfitta, in crisi di identità e senza soluzioni. Proseguire sulla strada battuta o, persino peggio, elaborare strepitose palingenesi a braccetto con gli interpreti principali di una fase socio-culturale avvilente sotto tutti i punti di vista significa consegnare il paese ai nazionalismi, alla violenza e al terrorismo. Sta già succedendo e non è un processo destinato a esaurirsi senza una reale svolta storica. La soluzione non è assecondare ventate populistiche funzionali al consolidamento di altre rendite di posizione, ma avviare pratiche virtuose, attraverso il buon esempio sotto il profilo della moralità pubblica e attraverso il rafforzamento dei servizi fondamentali del cittadino. Non si fronteggia la riluttanza berlusconiana verso le forme della legalità e del rispetto delle norme del vivere collettivo con un partito schiacciato sullo stato e con i vecchi sistemi di corruzione e distribuzione di potere mirata e strumentale.


Al congresso voterò e sosterrò Civati. Non certo cadendo nella trappola del culto personalistico del risolutore provvidenziale né con l'illusione che le cose possano mutare drasticamente con un click, ma con lo spirito di chi inizia un progetto in un gruppo compatto, determinato e indipendente nel pensiero e nella libertà d'azione. Chi vorrà essere con me, con noi, in una battaglia durissima che non conoscerà esclusione di colpi, sarà il benvenuto. Insieme potremmo persino organizzare un altro congresso, in cui la natura del partito, la funzione delle larghe intese e le scelte di principio possano anche essere discusse sul serio e da tutte le parti in causa. Per ora, per questo congresso, se vi accontentate, ci siamo noi.  

venerdì 30 agosto 2013

Le parole che non ti ho detto (perché non potevo dirtele)


C'è un ritornello abusato; dice che la sinistra italiana non vince perché non sa comunicare. Quante altre elezioni si dovranno perdere prima di prendere coscienza del fatto che il problema non è formale ma strutturale e riguarda i contenuti? Per quanti esperti in comunicazione, marketing, promozione si possano assumere non se ne troverà uno in grado di elaborare una strategia vincente, nella totale assenza di idee, proposte e progetti, anche a breve termine, nella quale ci troviamo a destreggiarci. Le campagne elettorali disastrose cui abbiamo dovuto assistere non sono il frutto sfortunato di un'incapacità momentanea o di uno stato di stordimento generalizzato, ma il prodotto di una mancanza di dialettica interna e di elaborazione sintetica di una proposta convincente e univoca, non soggetta ad ambiguità ed equivoci. Il tentativo di far convivere due anime differenti e, per molti aspetti, alternative non ha dato i suoi frutti perché non poteva darli, nella sua natura tutta politicista e poco sincera. La rincorsa ai cosiddetti moderati ha sortito come unico risultato tangibile lo snaturamento della sinistra, incapace ormai di farsi interprete credibile delle necessità delle fasce sociali più deboli e di istanze di rinnovamento vero rispetto a un sistema economico e sociale fallimentare. In altre parole, abbiamo lasciato a casa Marx e Gramsci, se non attraverso un uso residuale e puntualmente distorto, e ci siamo tenuti l'apparato e i sistemi corazzati di conservazione del potere. Per la paura di alienarci il voto di chi avrebbe dovuto farci vincere e non ci ha mai fatto vincere, abbiamo rinunciato alla creazione di una piattaforma di discussione, in grado di avviare un percorso di crescita politica inclusivo e spregiudicato, mai visto prima. Che è rimasto solo sulla carta, nel bellissimo statuto che il Pd cita solo in prossimità di primarie che sempre di più assomigliano a un costumino stretto stretto, dal quale le pudenda inevitabilmente fuoriescono.
Inutile dire che non ha funzionato nulla. Il messaggio non è mai arrivato a nessuno perché le mille anime interne al Pd non hanno mai cercato un punto di convergenza o valori condivisi differenti dalla mera autoconservazione. Nessuno è mai riuscito a comprendere quale sia la posizione del Pd sul lavoro, sui diritti civili, sul ruolo delle forze armate, sull'etica pubblica, quali siano le proposte nel campo delle politiche ambientali, quale sia il piano industriale ritenuto indispensabile allo sviluppo del Paese, quale sia la forma di rappresentanza democratica indicata, quale sia il piano economico per uscire da una crisi, non solo economica ma culturale, che fa sentire in tutta la sua forza lacerante il bisogno di una sinistra seria e credibile. Il Pd e il centrosinistra non hanno saputo offrire una visione del mondo alternativa alla logica anti-statalista, cinica e individualista, che vede nelle regole imposte per il vivere comune un serio ostacolo all'autoaffermazione del sé e di cui Berlusconi è il campione.
Di questa condizione sono il riflesso tutte le decisioni e le non decisioni prese dall'attuale governo. Ultima, solo in ordine di tempo, quella sull'IMU, sconfitta del Pd su tutta la linea e simbolo di una subalternità che, francamente, non era difficile prevedere. Un prezzo che tutti noi pagheremo, attraverso una tassa diversa e più vessatoria nei confronti di chi meno può permetterselo e attraverso il previsto aumento dell'IVA, per bloccare il quale, ovviamente, mancano le coperture. Quando la negoziabilità di tutti i valori diventa ordinaria amministrazione, può succedere anche questo.
Non sorprende allora il linguaggio trito e acquitrinoso con il quale siamo costretti a fare i conti tutti i giorni. Mutamenti semantici, costrutti perifrastici, indeterminatezza lessicale sono lo specchio di una disfatta valoriale, prima ancora che politica. La cautela morbosa e la retorica speciosa sono le forme con le quali il Pd si manifesta e si rapporta con il mondo e con un elettorato che è distante anni-luce e al quale piacciono pochissimo i meccanismi abituali di sopravvivenza del politico doc. Questi elettori non dovrebbe esplodere in fragorose risate al sentire parole come “responsabilità”, “libertà”, “amore”, “crisi”. A questi elettori, potenziali, da riconquistare e da conservare, piacerebbe sentire parole vecchie ma vive quali “uguaglianza”, “diritti”, “progressività”, “giustizia”, “passione”, “redistribuzione”, “servizi”, “tutela”, “welfare”, “cultura”, “società”, “solidarietà”. A costoro piacerebbe che queste parole, nei rari casi in cui vengono usate, non fossero corpi morti e rispondessero a un significato.
Sono le parole che non ti ho detto. E quando te le ho dette non dicevano niente.

martedì 6 agosto 2013

Le nostre condanne

Vent'anni da un video all'altro. Vent'anni per tornare al simbolo di Forza Italia, mentre l'Italia boccheggia travolta dalla crisi economica, dalla pochezza culturale, dal malaffare, dal malcostume, dall'incoraggiamento all'illegalità e dal dileggio costante delle istituzioni. Berlusconi appare ringiovanito nell'aspetto ma appesantito nella fedina penale: la sentenza di condanna a quattro anni di reclusione passata in giudicato è un medaglietta al disonore che neanche i cavillatori professionisti alla sua corte sono riusciti a evitargli. A coronare l'evento si sprecano i titoli trionfalistici sui giornali stranieri, che prima e meglio di noi hanno compreso le qualità del nostro ex (ex?) Presidente del consiglio ma troppe volte l'hanno dato per morto, sbagliandosi di grosso.
La sentenza della Cassazione sancisce definitivamente l'ignominia di uno Stato il cui primo ministro per un totale di dieci lunghi anni, nonché attuale rappresentante al Senato, è un frodatore conclamato. Come se non bastasse, a ciò si aggiunge la tenuta dell'attuale governo, imposto, a detta dei sostenitori, dall'urgenza della crisi economica e dalla necessità di tenere a bada i mercati e, a detta dei più fantasiosi teorici, dalla strategia di uscita dal berlusconismo insieme a Berlusconi, con annesse scommesse sull'evoluzione politica della destra italiana in senso europeo.
E infatti, ampiamente prevedibili, arrivano le richieste di grazia al Presidente della Repubblica, le trattative per tramutare l'affaire in un novello caso Sallusti, le minacce alla tenuta del governo e i dubbi sulla decadenza del Cavaliere. C'è persino chi, sottraendosi alla retorica della pacificazione, parla di “guerra civile”. E poi, naturalmente, l'immancabile farsa dell'aizzatore di popoli che rassicura gli alleati e, al contempo, tra un piantino e un altro, spara cannonate sulla nostra democrazia e sulla nostra costituzione, parole eversive che dovrebbero inorridire chiunque non provi disprezzo per le istituzioni.
Ma queste sono cose che sapevamo già. Le sapevamo anche prima del 25 febbraio scorso e prima della formazione di questo governo. Le sapevamo anche quando coloro che andavano sbraitando che un governo con Brunetta e Cicchitto non era un'ipotesi contemplata si sono affannati a sperticarsi in articolate argomentazioni sul senso di responsabilità e sulle grandi prospettive che una grosse koalition avrebbe aperto, relegando temi quali i diritti civili e le misure sociali e per il lavoro al cosiddetto benaltrismo. Le sappiamo a maggior ragione adesso.
Berlusconi era politicamente morto nel novembre del 2011. Il Pd l'ha resuscitato con una campagna elettorale disastrosa prima e l'ha sostanzialmente rimesso al suo posto poi, ignorando il messaggio forte e chiaro che veniva dagli elettori, i quali avevano affermato chiaramente che tutto avrebbero voluto vedere fuorché una riedizione del governo Monti senza tecnici, riversando su Grillo aspettative che lo stesso Grillo, per scelta deliberata e non solo per incapacità, non ha mai voluto soddisfare. Chi ha lavorato da sempre alla soluzione delle larghe intese è stato così compensato degli sforzi che neanche ha dovuto fare. Che fosse un'idea stupida, nella sostanza noncurante, checché se ne dica, delle sorti del Paese e puramente conservativa, era chiaro a chiunque lo volesse vedere. È una soluzione che ha fatto male: al Pd, alla credibilità già ai minimi storici della nostra classe dirigente e delle nostre istituzioni, al Paese.
La sentenza, a cui evidentemente non solo Ghedini sperava di non arrivare mai, pone un problema politico di difficile gestione: forse non basteranno neanche più le clamorose arrampicate sugli specchi di cui le nostre oligarchie intellettuali ci hanno deliziato. O forse dovremmo semplicemente rassegnarci all'idea che farci dettare l'agenda di governo da un pregiudicato sia davvero il male minore. Chissà quali preoccupazioni avranno ora all'estero: la stabilità di un governo italiano capace di rinviare qualunque decisione alle calende greche o il fatto che un frodatore del fisco faccia la parte del leone al suo interno?
Ma, come si è già detto, queste cose le sapevamo già. E la realtà è che non è più credibile chi nel Pd, ora, prova a fare la voce grossa. Non siamo pronti al voto, non siamo pronti a porre condizioni, non siamo pronti ad affrontare le sfide che il Paese ci ha chiamato ad affrontare qualche mese fa. Figurarsi se siamo in grado di dire la verità e cioè che il governo Letta è il miglior salvacondotto possibile per Berlusconi e che la sentenza lo condanna dal punto di vista giudiziario ma non da quello politico. Per quello dovevano bastare le scorse elezioni, quando sei milioni di persone hanno deciso di votare qualcos'altro o di non votare proprio. E, tanto meno, siamo pronti a proporci come un'alternativa solida e affidabile ai partiti padronali e demagogici, continuamente puntati al ribasso culturale, civile, morale. Non siamo pronti a voltare pagina perché in troppi non lo vogliono fare e perché non se ne può neppure discutere. Non siamo disposti a modificare forme di rappresentanza che nessuno sente più come soddisfacenti, né siamo disposti a rimetterci in gioco accettando la sfida della partecipazione vera, attiva e consapevole.

Eppure sono necessità stringenti; sono, queste sì, urgenze reali. L'Italia e l'Europa hanno un bisogno inderogabile di discontinuità, di cambiamento e di sinistra. Ma davvero non hanno bisogno di questo Pd.   

mercoledì 17 luglio 2013

Quando migrano gli oranghi

C'è tantissima ipocrisia nell'atteggiamento di chi relega il tema dell'immigrazione a un ruolo di rincalzo nel contesto delle cosiddette priorità del nostro Paese, priorità peraltro, ammesso lo siano davvero, sempre rinviate alle calende greche. Dietro alla melmosità di queste argomentazioni si cela soltanto, neanche troppo latente, il desiderio di chiudere la porta prima ancora di mettere la mano sulla maniglia. È solo una questione di ostilità pregiudiziale, pigrizia di intelletto, malafede studiata.
In realtà il fenomeno migratorio è una componente ineludibile del mondo contemporaneo, oltre che una costante antropologica dell'essere umano, e va analizzato in tutti i suoi aspetti, possibilmente senza paraocchi ideologici. In primis l'aspetto economico: gli immigrati regolarmente residenti in Italia sono più di 5 milioni, producono il 12% del prodotto interno lordo nazionale e contribuiscono alle casse dell'INPS per circa 7.5 miliardi all'anno, quasi sempre non riscuotendo il dovuto per mancanza di accordi bilaterali tra i paesi o per assenza di requisiti in termini di anni di contributi. Per lo più lavorano in posizioni non ambite dagli Italiani e costituiscono un motore ineliminabile per la sopravvivenza delle nostre imprese. Gli imprenditori stranieri sono in costante aumento e si concentrano nel settore del commercio, della manifattura e dell'edilizia: in molti casi danno lavoro agli stessi Italiani. Se per un giorno soltanto tutti i lavoratori immigrati smettessero di lavorare, il paese rimarrebbe bloccato con conseguenze inimmaginabili. Dal punto di vista demografico l'immigrazione rappresenta una vera e propria ancora di salvataggio, poiché va a supplire alla scarsa natalità italiana, producendo linfa vitale e ricambio generazionale. Certo, ciò farà storcere il naso ai puristi della razza italica, o padana, o ariana, ma tant'è. Sul piano culturale i flussi migratori significano nuove possibilità di mettersi in gioco, significano confronto con l'alterità e scoperta della propria identità, prima ancora di quella altrui. La società interculturale cui dobbiamo andare incontro è prima di tutto una sfida rispettosa e stimolante: non comporta alcuna perdita sul piano identitario, ma acquisizioni e prospettive di crescita. Certo, occorre mettersi in gioco e conoscere l'altro con un atteggiamento, guidato e coordinato dal mondo delle istituzioni e dall'associazionismo, di reciproca curiosità e fattiva collaborazione. Senza chiusure, senza falsi miti, senza un solidarismo di facciata, controproducente e troppo spesso opposto e percepito come unica reale alternativa alla becera propaganda della destra e della Lega.
D'altra parte è proprio dalla squallida deriva subculturale delle camicie verdi che escono fuori le dichiarazioni razziste del vicepresidente del Senato Calderoli. Con a ruota gli immancabili cretini della seconda ora, tipo Serenella Fucksia, che, evidentemente provata dalla singolarità del nome che porta, non ha voluto far mancare il suo contributo, chiarendo che l'accostamento all'animale non deve essere considerato un insulto e aggiungendo che Calderoli è in effetti il miglior vicepresidente del Senato che si possa desiderare. Insomma, dare dell'orango a un ministro di origini congolese ci può stare. E l'ideatore del Porcellum non è neanche poi disprezzabile quando si mette a fare il suo lavoro. È dotato, ma si impegna poco, il ragazzo.
Ecco, ma non si pensi che questi comportamenti siano il frutto un po' sopra le righe di qualche esponente politico vulcanico o particolarmente brioso. Alle spalle c'è, ben forte, una componente paraideologica, capace di evocare e destare le paure riposte delle persone: se il diverso può raggiungere i più alti gradi delle istituzioni italiani, la minaccia è tangibile; è più che una minaccia. Le dichiarazioni di Calderoli sono contro un'idea di società e contro un modello di sviluppo, oltre che contro una persona specifica.

L'obiettivo che si deve perseguire va esattamente nella direzione contraria e passa dallo ius soli e dal diritto di voto, da una scuola più ricettiva e più attenta all'interscambio culturale a strutture capaci di favorire l'integrazione e la compenetrazione reciproca. Non esistono cittadini senza rappresentanza e senza punti di riferimenti istituzionali. Arroccarsi su posizioni di diffidenza o finanche di ostilità serve solo a negare che l'immigrazione ha potenzialità inesauribili, sia in termini di sviluppo economico sia in termini di sbocchi occupazionali. E ciò sia detto senza volere disconoscere gli inevitabili problemi di convivenza che il fenomeno ha creato, crea e creerà. Il punto è sapere affrontarli, magari risolvendoli quando sono ancora in nuce.
E questo compito spetta alla sinistra. Solo una politica miope, o meglio cieca, ha potuto soffrire la concorrenza leghista, senza opporre certezze, parole chiare e contenuti forti. Solo una sinistra senza valori differenti da quelli dell'autoconservazione ha potuto abbandonare alla deriva gli ultimi e farsi subalterna rispetto a coloro che hanno votato la Bossi-Fini, confinando nella categoria di incidentale scocciatura la tutela dei diritti delle persone.